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A Capo Frasca il movimento contro le basi dimostra la sua vitalità. Ma ora serve un cambio di passo (e per voi 15 foto)

Capo Frasca, 12 ottobre 2019 (foto Olliera)

Al netto delle scaramucce che hanno caratterizzato l’ultima parte della manifestazione, quando ormai quasi tutti eravamo sulla strada di casa e che hanno coinvolto soltanto chi la manganellata è andata proprio a cercarsela, la manifestazione di ieri a Capo Frasca è stata bella, pacifica, importante, partecipata. Meno slogan e più ragionamenti, più ascolto e meno urla, più gente comune e meno politici.

Già, i politici. Rispetto a cinque anni fa non si è visto il Pd, non si sono visti i 5 Stelle, e nemmeno si sono visti i sardisti: segno che quando si arriva al governo si dimenticano le lotte, spesso cavalcate solo strumentalmente. Ma a Capo Frasca non si sono visti nemmeno i sindaci del territorio (cinque anni fa il primo cittadino di Arbus prese la parola) e questo è molto grave.

Assenti poi i sindacati confederali, evidentemente troppo impegnati a sostenere Confindustria che vuole realizzare la dorsale del metano, raddoppiare la fabbrica di bombe Rwm di Domusnovas e che sta difendendo le centrali a carbone. In questo si sono trasformati nella nostra regione Cgil, Cisl e Uil: in sindacati gialli.

Ma se le assenze volevano provare a mettere in difficoltà il movimento che in Sardegna si batte contro la sproporzionata occupazione militare del territorio e la devastazione ambientale causata dalle esercitazioni, il tentativo è fallito. Il movimento esiste ed è numeroso e ieri ha dato prova di vitalità, con quattromila persone (stima attendibile) che hanno manifestato davanti alla base.

“A Capo Frasca una grande festa di popolo. Ora però chi guida il movimento?” mi chiedevo cinque anni fa. La risposta ieri è arrivata chiara: non certo i partiti, ma i movimenti. A Foras è riuscita nell’impresa di mettere assieme tantissime sigle di diversa provenienza, dando alla lotta una corretta dimensione plurale che poi è stata richiamata anche da diversi interventi. Obiettivo raggiunto, e di questo dobbiamo essere grati a chi si è speso in prima persona per la riuscita della manifestazione.

Certo, molto resta ancora da fare. Servirebbe un coordinamento più largo, capace di mobilitare le singole associazioni nel corso dell’anno e nei diversi territori, con l’obiettivo di de-ideologizzare questa battaglia che sarebbe tanto più efficace quanto più si riuscisse a coinvolgere persone al di fuori della cerchia ristretta dei circoli indipendentisti o della sinistra radicale, che comunque hanno il sacrosanto merito di avere tenuto alta in questi anni la bandiera della mobilitazione.

Il manifesto firmato dagli intellettuali è un buon punto di partenza. A loro spetta adesso il compito di impegnarsi quotidianamente nella lotta contro l’occupazione militare della Sardegna e di coinvolgere altri settori della società civile. Lo faranno realmente? Io voglio sperarci.

Anche perché ora serve un cambio di passo. Le manifestazioni sono importanti ma non (al pari degli scontri con la polizia, per chi piacciono) se si trasformano in un rito. Ecco, la giornata di ieri sarà importante solo se segnerà un punto di partenza verso un modo anche diverso di fare militanza. E i primi segnali già si sono visti, nei toni degli interventi, meno urlati e più ragionati rispetto a cinque anni fa.

Di ieri resterà impressa a tutti la forza tranquilla di Luisu Caria che ha aperto gli interventi, così come le parole di Emanuele Lepore che da “italiano” e fratello di un militare morto dopo lunghi anni di permanenza a Quirra, ha invitato il movimento a non chiudersi nell’orizzonte sardo ma aprirsi al confronto con i movimenti contro le basi presenti anche in Italia. 

Resteranno nei nostri cuori le ultime parole di una mamma di Escalaplano per la figlia nata con gravi malformazioni, lette da Bettina Pitzurra, e lo struggente canto a cappella di Claudia Crabutza.

Ci ricorderemo di Cinzia Guaita del Comitato Rwm che ha ricordato con parole gentili come in tanti fossero arrivati lì a Capo Frasca seguendo strade di impegno diverse, e l’emozione della regista di “Balentes” Lisa Camillo (dalla Costa Smeralda con furore, ed è il suo un percorso di militanza evidentemente originale).

Ci ricorderemo delle parole di Gianfranco Sollai che, impegnato come avvocato nel processo di Lanusei per la vicenda di Quirra, ha invitato il potere giudiziario ad agire con imparzialità; e ci ricorderemo di Mariella Cao di Gettiamo le Basi (che mai smetteremo di ringraziare per il suo impegno solitario negli anni di cui di basi militari non parlava praticamente nessuno) che ha offerto lo spunto di riflessione più interessante della manifestazione: “La Sardegna è sia vittima che carnefice dei militari, perché subisce le esercitazioni ma al tempo stesso fa parte di uno stato che offre il suo territorio ad eserciti che poi colpiscono le popolazioni civili. Ecco: se riusciremo a liberarci del ruolo di vittime, automaticamente smetteremo di essere anche carnefici”.

I poligoni, le esercitazioni, le guerre: tutto si tiene. L’esercito turco è stato spesso in Sardegna nelle nostre “bombing test areas” e oggi colpisce le popolazioni civili curde. Ieri a Capo Frasca abbiamo manifestato anche per loro. E lo faremo ancora.

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One Comment

  1. francesca angioni says:

    Questa è la lotta di tutte le lotte, perché vivere in un paese di e in pace è il primo diritto. Io, magari esagerando mi vergogno che eserciti sanguinari vengano ad allenarsi qui per la morte di altri, mi vergogno di non fare abbastanza per loro e per chi in silenzio qui muore di cancro. Chi non era a Capo Frasca sabato nella maggior parte dei casi ha paura, ha paura di ammettere che il nostro territorio è avvelenato, è la paura muove più di tanti sentimenti, in alcuni più dell’amore.
    Il nostro Stato guadagna sia dalla vendita di armi che dall’affitto degli spazi sardi per le esercitazioni. Prendiamo per esempio Finmeccanica che ha tra le attività più redditizie la produzione di armi: il 65% di Finmeccanica è in mano ai privati 35% invece è pubblica. Chi spiegherebbe ai soci FIAT o Finmeccanica che andrebbero a guadagnare meno? Perché la chiusura di basi sarde significherebbe anche e soprattutto questo. Bisogna iniziare a pensare ad una riconversione produttiva e questa riconversione deve partire da una scelta politica chiara. Le basi e i territori occupati sono un problema, ma il problema a monte è la produzione di armi, di cui l’Italia è ai primi posti nel mondo e che ovviamente andrebbe a scontrarsi con sistemi economici così forti e consolidati che nessun governo ha voglia, né il coraggio di scardinare. E’ facile dunque immaginare il perchè dell’assenza delle istituzioni. Chi tace è complice e consapevole.

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