Spettacolo

“Il sol dell’avvenire” di Moretti mette la sinistra italiana davanti alla sua indicibile vergogna

Silvio Orlando in “Il sol dell’avvenire”

Ieri, alla proiezione delle 16.15, eravamo in cinque a vedere il film di Nanni Moretti “Il sol dell’avvenire”: io, due signori anziani che hanno tenuto la mascherina tutto il tempo e due ragazze sui vent’anni che sono entrate in sala abbracciate a un bicchierone pieno di pop corn, segno che forse avevano sbagliato film (o, molto più semplicemente che, come ci dimostrerà il regista, i tempi sono cambiati).

Del film si sta parlando e scrivendo moltissimo in questi giorni e quasi tutti i critici concordano sul fatto che rappresenti un distillato di morettismo, con una sequenza di scene e di situazioni che richiamano i topoi del suo cinema, fin dai suoi esordi in “Io sono un autarchico”, passando per le opere più iconiche degli anni novanta come “Palombella rossa” e “Aprile”.

Il pubblico si compiace sempre quando ritrova, come Pollicino nel bosco, i pezzetti di pane lasciati dal regista per segnare il sentiero segreto che porta alla comprensione dell’opera, e si esalta nel ritrovare le “citazioni delle citazioni”. Moretti in un gioco autoreferenziale (come giustamente scrive La Nuova di oggi) strizza l’occhio al suo spettatore più fedele, e come un rocker di successo regala un medley dei suoi tormentoni più famosi, ora rivisti alla luce dei tempi che cambiano. 

Quando il cast sul set inizia a cantare la canzone di Noemi “Sono solo parole”, come non ripensare agli spettatori della partita di pallanuoto che in “Palombella rossa” intonano “E ti vengo a cercare”, in una scena che tanto ci aveva entusiasmato allora? E quando Michele Apicella irrompe nel set di un film prodotto dalla moglie, contestando il modo in cui il giovane e sguaiato regista sta girando la scena di un omicidio, come non ritrovare la stessa situazione in tante altre pellicole dell’autore romano, dove interruzione fa rima con ribellione?

In questa operazione nostalgia lo spettatore agée naufraga dolcemente, pensando alla sua giovinezza e ai tempi in cui i film di Nanni Moretti avevano qualcosa da dire e, forse, la dicevano veramente. Ma stavolta c’è qualcosa che stona e l’ho capito leggendo il lungo e coltissimo articolo del regista Carlo Rafele dal titolo “Nanni Moretti e l’età della krisis”, scritto nel 2015 ma sempre valido. A non tornare è semplicemente il fatto che 

Le opere del Moretti dell’epoca anteriore pullulavano di ombre trovate per caso, lampi di idee che si imponevano al di là del copione, creature e figurazioni che parevano esenti da pregiudizi di sceneggiatura, deflagrazioni del senso sia poetico che cinematografico che trovavano impatto immediato sullo spettatore e sulla “plasticità” del racconto.

Ora invece:

Così non è: non c’è volontà di problematizzazione o di sovvertimento dei consueti parametri morettiani: nemmeno una provocazione, un guizzo “laterale” che spalanchi un varco effettivo sull’imbastitura teorica degli ultimi film. Gli argomenti risultano poco pregnanti e Moretti ha ancora una volta buon gioco nel duplicare perentoriamente il suo “punto di vista”.

Moretti stavolta replica i suoi tormentoni. Non c’è più l’effetto sorpresa: il giovane regista alla fine gira la sua volgare scena di omicidio tra il tripudio della troupe, mentre Nicola Apicella, sconfitto, abbandona sconsolato il set.

C’è però in quest’opera in cui Moretti gioca a distrarre il pubblico e la critica con un gioco di specchi, di citazioni cinematografiche (niente esalta maggiormente i critici delle citazioni cinematografiche che solo essi sono in grado di riconoscere!), un cuore originale pulsante, ed è un cuore politico.

Non andatevene adesso perché il bello del film inizia qui.

Sfrondato da tutte false piste che il regista dispone nella sua opera, “Il sol dell’avvenire” chiude a mio avviso una tetralogia tutta politica e dedicata alla sinistra italiana, aperta nel 1989 con “Palombella rossa”, proseguita nel 90 con “La cosa” e nel 1998 con “Aprile”.

Quanto Moretti sia stato critico con la sinistra italiana è risaputo (ricordate nel 2002 lo sfogo “Con questi dirigenti non vinceremo mai?”) e le sue riflessioni sono sempre state oggetto di dibattito. Non vedo però ora una uguale attenzione. Anzi, mi sembra che sul messaggio politico di questo film, tanto profondo quanto evidente, mi sembra che stia calando un imbarazzato silenzio. Perché?

Perché semplicemente Moretti arriva a individuare la radice stessa della debolezza, delle contraddizioni e delle ipocrisie della sinistra italiana nella mancata ribellione del Pci all’Urss, in occasione dell’invasione dell’Ungheria nel 1956.

Non c’entra niente il Caimano, non c’entra niente il fascismo: qui c’è solo la sinistra davanti alla sua storia e alle sue responsabilità.

Il personaggio interpretato da Silvio Orlando racconta bene l’ottusità dei dirigenti del Pci degli anni ‘50, brave persone ma in fondo bigotte e prone ai voleri del partito piuttosto che libere e indipendenti (in questo ricordando alcune figure tratteggiate da Sergio Atzeni in “Il figlio di Bakunin” e “Il quinto passo è l’addio”). 

Moretti/Apicella indugia sui vergognosi titoli filosovietici dell’Unità di allora, li rimarca senza pietà. E prova alla fine con un vero “what a fuck point” (chi vedrà il film capirà) a immaginare un Pci che abbandona l’Urss al suo destino e continua, senza contraddizioni e nel segno della libertà, il suo percorso verso “Il sol dell’avvenire”.

Di questo parla il film di Nanni Moretti e questa è la domanda che pone a se stesso e a quelli della sua generazione: ma come è stato possibile che i comunisti italiani abbiano appoggiato l’Unione Sovietica e non i ribelli ungheresi? Perché tra libertà e oppressione hanno scelto l’oppressione? 

Questo è il nodo, questo è il punto, questa è la radice dell’inadeguatezza della sinistra italiana che ha aspettato la caduta del muro di Berlino per allontanarsi dall’Urss (sì, già vi sento ricordarmi di Berlinguer, delle sue parole contro Mosca, del tentativo sovietico di ucciderlo: ma la sostanza non cambia e la vergogna dell’Ungheria resta). Una inadeguatezza antica che arriva drammaticamente fino ai giorni nostri.

Moretti avrebbe dovuto fare questo film almeno trent’anni fa, ma anche oggi quelle che ci propone sono domande scomodissime e che fanno male. Avranno gli antichi militanti del Pci e chi oggi si riconosce nei valori della sinistra il coraggio di rispondere?

Post scriptum
Alla fine del film le due ventenni sembravano soddisfatte. Avrei voluto fermarle, chiedere loro cosa avevano capito, se il film era piaciuto. Avrei dovuto fare come avrebbe fatto Nanni Moretti in persona, incalzarle di domande, costringerle al dibattito. Ma ho capito che avrei fatto solo la figura del trucchista anziano che prova a stoppare due pivelle al cinema con un pretesto qualunque. Quindi, ho lasciato perdere.

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8 Comments

  1. Precisazione. A onor del vero per quanto riguarda l’invasione della Cecoslovacchia il Pci si schierò con Dubček e difese l’esperienza della primavera di Praga, ma non al punto di criticare a fondo il sistema politico sovietico e delle repubbliche satelliti. Posizioni, quelle del PCI, che comportarono una profonda divaricazione con il gruppo del Manifesto i cui leader (Rossanda, Magri, Pintor, Natoli) furono radiati dal partito (1969).

  2. Torno ora da vedere il film di Nanni Moretti. A caldo dico che non mi è piaciuto, complessivamente. So di confondere il film con le vicende che narra: di un partito comunista bigotto e realista fino a giustificare (anzi osannare per) la repressione sovietica sull’Ungheria nel 1956. Forse Togliatti non poteva fare diversamente, troppi i condizionamenti dell’URSS. E un esito diverso, come decide Moretti riscrivendo la Storia, sarebbe stato impossibile. Ma a rileggere quegli avvenimenti dico: W il ‘68! W l’eresia del Manifesto, che si manifestò contro l’accettazione da parte del PCI dell’invasione sovietica della Cecoslovacchia nell’agosto 1968. Onore al grande partito comunista per aver sostenuto la crescita democratica dell’Italia, ma distinti e distanti per quanto possibile da quell’esperienza. Non è un caso che personalmente con altri compagni scegliemmo, dopo e oltre l’impegno sociale di cattolici, di non aderire al PCI, ma ad altre formazioni della sinistra. Per me Democrazia Proletaria, passando dal MPL e dal Pdup (prima versione). Insomma io ho una storia politica diversa da quella di Moretti e ne sono contento, ragionandoci ora (e anche col senno di poi). Meno male che sono nato più tardi (1950)! Un tempo parafrasando il motto dell’ integralismo cattolico “nulla extra ecclesiam” si diceva “niente a sinistra fuori dal PCI”. Non era così. E io, insieme con altri compagni e compagne sono convinto e orgoglioso delle scelte di fondo fatte nel mio passato politico. Insomma per tutto ciò la mia lettura del film di Moretti, che considero un grande e colto regista, non mi coinvolge, anzi mi ha confermato in una certa estraneità, felicemente!

  3. Ieri ho visto il film, al contrario ero io ad abbassare la media dell’età, insieme a una coppia di ragazze più giovani di me.. ma io l’ho visto allo Spazio Odissea che è il covo dei Morettiani casteddaiusu.
    Concordo su tutto, il film in sé è passabile, non mi lascia molto perchè come scrivi è un Medley di ciò che già avevamo visto e sentito (anche il monopattino al posto della Vespa o i sabot).. sembra quasi un sogno alla Tarantino che con BSG aveva voluto riscrivere gli eventi per rimettersi in pari con la Storia, e quel Berlusconi in mezzo alla folla camminante ne è l’esempio.

  4. Mi trovo molto più in linea con l’analisi di Sante Maurizi, pubblicata su questo stesso spazio il 23 aprile.
    Ho l’impressione che questo ultimo film di Moretti sia piaciuto soprattutto a chi Moretti prima non lo conosceva, oppure non lo apprezzava, o non lo capiva, e l’analogia della barzelletta che si conosce già è una sintesi perfetta.
    Moretti con questo ultimo lavoro è diventato innocuo, didascalico, si è ridotto a una macchietta di sé stesso e non fa più né piangere né ridere, né sorprende più, purtroppo, ma solo sbadigliare ripetutamente, e lo dico con enorme dispiacere.
    Detto ciò vorrei notare solo alcune imprecisioni del testo qui sopra:
    1) L’invasione di cui si parla nel film dentro al film è quella dell’Ungheria, e non quella della Polonia.
    2) Il protagonista si chiama ‘Nanni’ e non ‘Michele Apicella’, né tantomeno ‘Nicola Apicella’.
    3) La ‘sinistra italiana’ (qui identificata con il PCI) non ha aspettato la caduta del muro per allontanarsi dall’URSS, ma lo ha fatto ben prima, ad esempio nel ’68, durante la segreteria di Longo dello stesso PCI, quando espresse solidarietà a Dubcek e condannò l’intervento sovietico a Praga.

  5. Lo vedrò stasera, quindi l’articolo lo leggerò dopo.

  6. bell’articolo e bel commento. Non so se andrò a vedere il film e non so quando lo vedrò. Avresti dovuto stoppare le due ragazze e chiedere perché erano lì e cosa avessero capito del film. E poi da cosa nasce cosa, si sa. Ma probabilmente le risposte (tutte) non ti sarebbero piaciute…

  7. claudio says:

    Eccellente analisi di un’opera cinematografica contemporanea che sfida i botteghini con tematiche non certo facili e facilmente digeribili ai più, in un epoca post covid dove ancora resta la paura di stare seduti accanto ad uno sconosciuto impestato o impestabile dal male del secolo che è da capire se sia il Sars2 o (perché no) l’imperante imbecillità dei “il fascismo non esiste” o del domandarsi se la nostra Costituzione sia realmente vaccinata ed adeguata ai nuovi tempi ed al gusto estivo della “Melona” nazionale e del fratello d’Italia e padre di Vercingitorige… Mah. Tra vedere e non vedere (in sala) aspetterò prime netflix senza popcorn e con la mia “non filtrata” fresca fresca.
    Asta la vista…
    Visto che asta?
    Cla

  8. E insomma, caro Vito, direi che – anche – per me il tuo contributo è parecchio importante, stabilisce un “prima” e un “dopo” tutt’altro che superfluo o secondario per la lettura, la comprensione e la “giusta” visione del film: mentre la mia prospettiva – di intellettuale/saggista ostinato a cercare le ragioni estetiche e filosofiche di determinate Opere (non a caso un testo del mio Blog, scritto nel 2017, si intitola “Perché non possiamo dirci artisti”) – tu con accorta, ponderata sagacia muti direzione e affronti il problematico tornante del “cuore politico” del film, in virtù del quale in effetti scaturiscono domande cruciali a cui ancora oggi forse non abbiamo saputo o voluto dare risposte. Fai bene ad avvertire il lettore-spettatore a non disertare la sala dinanzi al Moretti reiterato e palesemente sconfitto, c’è un di più che va assolutamente e urgentemente “valutato” e che riguarda clamorosamente i grandi errori della sinistra (e quindi le domande che i militanti di sinistra non hanno mai posto alle loro coscienze ingenue). A tale riguardo, la frase chiave del tuo testo è: “Non c’entra niente il Caimano, non c’entra niente il fascismo: qui c’è solo la sinistra davanti alla sua storia e alle sue responsabilità”. E a me, che ho seguito una diversa “ostinazione” di fronte a Moretti e al morettismo, non resta che rilanciare quel tema che nel mio testo correva sottotraccia, ovvero l’inadeguatezza. Che quindi, a questo punto, grazie alle tue argomentazioni, non è soltanto di un Papa modello Celestino Quinto o dell’autore regista che ha deciso di costruire un film su questo “strano” pretesto (da cui scaturiva la domanda: inadeguato a che cosa?), ma di quella cospicua e consistente e rilevante generazione di spettatori che alla sensibilità di Moretti ha voluto affiancarsi e che oggi, di fronte al Moretti ritornato Michele Apicella, dovrebbe saper ritrovare l’energia e il coraggio di guardarsi in quello specchio. “Non andatevene adesso perché il bello del film inizia qui”.

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