“Quando si guardano i numeri e si lasciano da parte le mistificazioni e le strumentalizzazioni di qualcuno, ci si rende conto che la situazione della Sardegna, quella della quale si vogliono gettare le colpe sulle spalle del presidente della Regione, in verità è una situazione leggermente migliore”. Il presidente della Regione Christian Solinas ieri ha commentato così i numeri attuali dell’emergenza Covid sarda.
Continuiamo pure a dare i numeri. I 180 nuovi positivi registrati ieri rappresenterebbero una contrazione significativa del contagio (ma oggi i contagi sono risaliti a quota 413), ancora di più a Nuoro, dove la conta si fermerebbe a 23 nuovi infetti ieri e 34 oggi, un numero che concorre al dato regionale complessivo e che ci colloca in zona gialla, almeno temporaneamente.
La stima, in realtà, non scende nel particolare di alcuni territori, per esempio non tiene conto dei 1500 tamponi in attesa di processazione a Nuoro per la chiusura del drive-in, risalente a martedì scorso, di cui si attende la riapertura domani, 6 novembre, e nemmeno si cura della Dichiarazione di Emergenza Sanitaria, decretata ieri dal sindaco Soddu, limitatamente alla casa protetta e che si aggiunge alla sequela di classi e docenti finiti in quarantena per casi di positività, verificatesi nella maggior parte delle scuole e che suggerisce sì la buona salute, ma del virus.
Gli stop and go, al momento, sembrano riguardare tutta la macchina locale dell’emergenza, non solo i mezzi di processazione (nulla si sa nemmeno dell’arrivo dell’ulteriore mezzo per duemila tamponi al giorno, di cui è stato recentemente annunciato il noleggio).
Una carenza gravissima che non permette di isolare i positivi, di fornire dati veritieri e di comporre un quadro reale e nitido della situazione, arma spuntata della battaglia sanitaria, che certo concorre alla drammatica situazione dell’Ospedale San Francesco.
Appena sfiorato dalla prima ondata, fermata dal lockdown più che dalla visione strategica di sistema di un qualche piano pandemico, il presidio sanitario non sembra giovarsi degli errori della passata gestione, né si è adeguato alla recente impennata dei contagi, che sembra sortire lo stesso effetto sorpresa dello scorso febbraio, agli albori della diffusione della SARS-CoV-2 nel nostro Paese. Nessuna svolta, nella sostanza, nonostante la riorganizzazione al vertice che ha affidato la dirigenza dell’ospedale di Nuoro alla dottoressa Giovanna Gregu e che ha visto il passaggio della gestione dell’emergenza Covid-19 dalla dottoressa Grazia Cattina alla dottoressa Gesuina Cherchi, non un medico igienista, ma una psicologa.
Torniamo ai numeri. Dal mese di settembre ad oggi, tra medici, infermieri ed Oss, il presidio sanitario conta 77 positivi, un numero in continua crescita, segno che il luogo nevralgico dell’emergenza continua a non funzionare e ad essere un focolaio che non accenna a spegnersi. Al peccato originario (che vide la prematura e ottimistica chiusura del reparto Covid, allestito lo scorso marzo nell’ala che si affaccia in via Einaudi, già destinata alla Pediatria, quindi, luogo potenzialmente ideale, con i suoi accessi dall’esterno, utili a garantire l’irrinunciabile separazione tra “sporco” e “pulito”, dotato inoltre di otto posti di rianimazione, persi), sono seguite scelte inspiegabili.
Misure che si concretizzano nella moltiplicazione dei casi, nella chiusura di reparti, nel la trasformazione di una porzione del Pronto Soccorso ad area Covid, una volta preso d’assalto dai pazienti già accertati positivi, in attesa di un letto, oramai, divenuto reparto Covid a tutti gli effetti, con i suoi venti degenti, nonostante il personale sottodimensionato – mancano sei dirigenti medici previsti in organico -, non solo per effetto dell’isolamento da positività ma per criticità pregresse, cui si sopperisce con lo spostamento, al bisogno, di unità destinate ad altro servizio. Indicatore preciso della traduzione in prassi della navigazione a vista con cui si vorrebbe governare una fase estremamente complessa.
Insomma, un quadro allarmante e fuori controllo che non ha visto correzioni di tiro, nonostante l’urlo lanciato dal personale sanitario, costretto a lavorare nella più completa assenza delle basilari forme di tutela, normalmente riservate ai lavoratori, con evidenti conseguenze a danno, oltre che dei sanitari, di tutta l’utenza del servizio di tutela della salute.
Cosa non ha funzionato? Perché il vantaggio guadagnato nella prima ondata non è stato tradotto in azioni preventive concrete, come la certezza di una task force efficace che procedesse all’analisi della situazione, all’individuazione di luoghi utili alla separazione delle aree Covid, con relativa definizione dei percorsi, alla formazione del personale, di cui verificare l’effettiva acquisizione, non delle ore di frequenza dei corsi, ma della competenza necessaria alla gestione di pazienti Covid, in contesto pandemico?
Come è stato possibile allestire il nuovo reparto Covid al decimo piano, nel cuore dell’ospedale, rinunciando a uno dei requisiti previsti da una visione strategica e condivisa che, al contrario, appare frammentata e disfunzionale?
Si insiste a non prevedere passaggi dedicati che, nella pratica quotidiana dei sanitari destinati a quel reparto, si traduce nell’esposizione al rischio, maggiorato dalla farraginosità dell’organizzazione logistica che non garantisce, semmai ostacola, persino l’accesso ai servizi igienici e le operazioni di vestizione e “sbardamento”, servizi e luoghi che distano dieci piani dagli ambienti in cui prestano il servizio, con la prevedibile conseguenza della contaminazione delle aree riservate a tutto il personale ospedaliero e al pubblico.
Aree di svestizione che, peraltro, non rispondono ai criteri che i materiali dismessi, che non dovrebbero riempire i contenitori, oltre i due terzi della capienza. E non è ancora tutto. Non è chiaro nemmeno come sia possibile definire reparti Covid due spazi (il secondo reparto Covid è nel reparto di Malattie Infettive) uno spazio privo di anticamera e camere a pressione negativa, aventi lo scopo di ripulire l’aria dalle particelle virali emesse dai 33 pazienti già sottoposti a terapia respiratoria avanzata, che costringe il personale all’esposizione continua ad un’ambiente “sporco”, impossibilitati come sono a cambiare i Dpi poiché la turnazione notturna prevede un solo medico che non può certo abbandonare il reparto.
Una sequenza di errori inammissibili, taciuti o minimizzati da parte di chi sembra valutare autoreferenzialmente il proprio operato, tra conflitti palesi e sotterranei, prove di forza e paciose rassicurazioni che, nei fatti, mettono sullo sfondo l’incolumità dei cittadini.
L’evidente assenza di un piano di azione trasversale e condiviso (l’Usca e l’Igiene Pubblica dove sono sparite?) basato sulla circolarità della comunicazione e su azioni, fondate scientificamente oltre che più coraggiose, finalmente non inquinate dai particolarismi, avrebbe permesso la corretta gestione logistica e l’uso razionale dei seimila posti letto ospedalieri presenti nell’isola (ai cinquemila del pubblico se ne aggiungono mille privati) senza far sentire la necessità di un ospedale da campo, preso in prestito dalla Croce Rossa lombarda e riempito, per legge idraulica, con i letti dell’ospedale.
Le omissioni e le polemiche sorte non hanno fatto che aggravare il quadro. Non è neanche più ammissibile che il paziente Covid sia frainteso come competitore, antagonista del paziente oncologico o cardiopatico. Il paziente Covid a rischio, è soprattutto il soggetto più fragile, quindi anche e di sicuro quello cardiopatico o oncologico.
Il futuro è ieri e speriamo di non dover vivere quello che abbiamo scampato nella prima ondata “Sardegna destinazione Covid free”, lo spot più bello della storia della promozione del turismo sardo, che oggi ci presenta il conto.
Sonia Melis
Tanto senza lockdown non basterà nulla, finché il contagio cresce si saturerà tutto il saturabile e poi la gente sarà lasciata a morire a casa. Forse allora capiremo. Forse.