Coronavirus / Cultura

Parla lo psicoterapeuta Aurelio Bagella: “Ecco perché ci rassicura pensare che il virus sia stato creato dall’uomo” (di Sonia Melis)

La pandemia, la necessità di una nuova Weltanshauung, una “visione del mondo” che superi l’antropocentrismo e rimetta al centro la responsabilità, sono i temi trattati con uno dei più noti psichiatri di Sassari, il dottor Aurelio Bagella, psicoterapeuta transazionale e sistemico relazionale. 

Nell’era in cui la filosofia si interroga sulla necessità di trovare nuovi paradigmi del postumano, determinato dal superamento dei confini naturali dell’uomo, da sempre un continuum con la tecnica, si pone l’urgenza di ripensarci come parte di un processo in divenire e di ripensare anche la relazione con l’ambiente e le altre specie. In questo frangente, siamo stati costretti a sperimentare, concretamente, l’appartenenza a un sistema complesso, in cui non abbiamo il ruolo antropocentrico di dominatori, come dentro una sorta di regressione, un balzo indietro…
“La sua domanda solleva una serie di questioni, che qui non abbiamo il tempo di poter chiarire. Ma alcune di esse, perché io possa rispondere, devono essere sfiorate. Il concetto di Natura, di che cosa essa sia, è la prima di queste. Questo si determina per contrapposizione a quello di Uomo, nell’ambito di una scissione originaria, in un rapporto di reciproca sottrazione: già Eraclito sosteneva “phusis kruptein philein”, cioè la natura ama nascondersi. Nel nostro mondo di dominio della tecnica la Natura evoca delle specifiche fantasie, vissuti e pratiche, totalmente diverse da quelle del mondo antico o anche da quelle del periodo Romantico, per non dire della visione ancestrale, che è ancora presente in popoli di cacciatori raccoglitori. Quindi si può immaginare, da un lato, che questo costrutto sia sottoposto a un’evoluzione storica e che dall’altro di questa scissione, connaturata alla sua nascita, permangano i segni in tutti i tentativi di recuperare la lacerazione (età dell’oro). Oggi siamo di fronte a un cambiamento di paradigma, proprio in senso kuhniano, in questa relazione, proprio perché l’insieme dell’universo, delle pratiche e vissuti di Natura, è andato incontro a un profondo cambiamento, come lei dice ‘l’era del superamento dei confini naturali dell’uomo’”.  

Un cambiamento che si ripercuoterà sull’esistenza degli individui?
“Dobbiamo anche riflettere su che cosa significhi il superamento di un paradigma e che cosa determini, sul piano non solo concettuale, il cambiamento di paradigma nel campo dei vissuti. Per far questo dobbiamo muoverci, per contrasto, a esaminare che cosa permetta invece la stabilità di un paradigma. Ora noi viviamo psicologicamente nell’ambito di un continuum di appartenenza/individuazione. Quanto più aumenta la stabilità di una visione del mondo, Weltanschauung, tanto più aumenta la sicurezza dell’appartenenza; di contro, qualsiasi movimento può essere portatore di uno spaesamento l’Unheimilicheit freudiano. Lo spaesamento evoca un’ansia determinata dalla sensazione della perdita di controllo su di sé e sull’ambiente. Quello che noi viviamo ora, con la comparsa del virus e della rivincita della Natura nei confronti della nostra volontà di potenza e di dominio, è proprio questo: la perdita di controllo e, con ciò, l’attenuazione del nostro potere di significazione nei confronti del mondo. Questa situazione profondamente destabilizzante evoca dei tentativi di ricomposizione dell’equilibrio precedente e alcune letture attuali di pensatori quali Luc Montagnier, sull’origine umana del virus, parlano di questo. Sono letture che svolgono la funzione che ha il delirio nello psichismo della persona che non accetta la sua perdita della capacità significante: è la difesa ultima, come affermava Jaspers, nel suo trattato di Psicopatologia Generale, nei confronti dell’inconoscibile. Il virus diviene ciò che, invisibile, nasconde la mano di uno sperimentatore, in un laboratorio cinese. La morte che porta con sé è domesticata, mi viene in mente la mort apprivoisée, del periodo barocco, secondo Philippe Ariès: è spaventosa, ma non è dovuta all’Altro non umano”. 

Pensare il virus come prodotto umano, in sostanza, diventa un riparo? 
“Nelle situazioni in cui il nostro mondo sembra sciogliersi di fronte all’avanzare di un nulla annichilente, diviene molto difficile non fuggire verso delle ipotesi che, per quanto terribili, hanno la virtù di non metterci di fronte al mondo non umano, cioè al vero mondo, per cui la ricerca di un altro essere umano che abbia causato volontariamente questa apocalissi – disvelamento, in questo caso, della realtà del mondo – è più rassicurante che immaginare che la cosa accada in un mondo sul quale noi non abbiamo un reale controllo”. 

Inaspettatamente, disarmati, viviamo una paura inedita, che scaturisce da un nemico senza volto né identità: con quali conseguenze, a suo avviso?
“Siamo disarmati di fronte a ciò che accade, non solo perché la tecnica ancora non riesce a trovare una soluzione a tutto questo, ma anche perché questa angoscia di essere di fronte all’annichilimento, la nostra angoscia, come ci insegna Heidegger, sorge di fronte alla morte, genera spaesamento e non dà la possibilità di accedere a delle letture significanti, come quella che lei prospetta, quando parla di appartenenza a un sistema estremamente complesso, retto da una causalità circolare, come tutti i sistemi e i macrosistemi biologici. Il riconoscere un’appartenenza a questo sistema potrebbe essere portatore di una nuova responsabilità verso il tutto, non più retta da una relazione verticale di dominio”.

Prima ho parlato di regressione, rispetto alla perdita del ruolo di dominatori che si è rivelata se non fallace, almeno relativa. Il balzo indietro sembra riguardare anche la concezione etica e persino il valore della vita sembrerebbe relativo. Le affermazioni di alcuni capi di stato e sanitari, circa la possibilità di dover scegliere chi salvare, non è già una forma di barbarie?
“In questi giorni assistiamo al fatto che i sanitari si trovano di fronte alla necessità di decidere chi salvare o di chi lasciare andare, decisione difficilissima da prendere, ma anche a un atteggiamento darwiniano da parte di alcuni capi di stato. Credo che questo si sia sempre verificato nelle situazioni di scarsità, ma nel nostro mondo evoca dei fantasmi del secolo breve: i fantasmi delle vite non degne di essere vissute, ritratte dalla mostra allo Steinhof di Vienna, i bambini dei gruppi marginali o malati sacrificati dal Nazismo. Farne un’ideologia, come abbiamo visto nei discorsi di alcuni leader mondiali, è molto pericoloso e ci può avvicinare ai ricordi delle follie dell’eugenetica”. 

E in relazione al lutto, che nella comunità di Bergamo, ha cancellato la generazione della memoria, gli anziani, quali conseguenze post traumatiche si potranno verificare, data anche l’impossibilità di compiere il rito del funerale, che ha una sua funzione anche nella rielaborazione?
“A Bergamo abbiamo visto come le persone non abbiano potuto accompagnare i loro cari deceduti per il virus, tutti abbiamo visto i filmati delle fosse comuni a New York. I riti collegati alla morte riconoscono un loro senso, millenario, nel dare la possibilità di elaborare il lutto: il pianto, la vicinanza con le altre persone colpite dalla perdita, la cornice di senso data alla morte, tutto questo contribuisce a permettere alla lacerazione determinata dalla perdita di potersi ricomporre. Il lutto, come insegna Elizabeth Kuebler Ross, ha i suoi stadi ineludibili e la condivisione del rito in comune facilita il processo, che in questa assenza delle buone pratiche può determinare l’insorgere di profondi sensi di colpa e in ultimo di una vera depressione”.

Alcuni psichiatri sostengono che il contesto che sperimentiamo, avrà effetti positivi, il virus ci renderebbe tutti uguali e, per una volta, ci indurrebbe a farci parte di una comunità solidale. In realtà, chi era fragile rischia di star peggio o, come in Melancholia, il film diretto da Lars von Trier, davanti alla minaccia della catastrofe, potrebbe rispondere con il rassegnato distacco della protagonista?
“Non credo che l’apocalisse del virus possa determinare di per sé la crescita di una comunità solidale. Perché ciò si possa determinare non è sufficiente una catastrofe di queste dimensioni, alla pandemia di Spagnola non è seguito un mondo diverso, ma forse ha fatto emergere la paura dell’Altro e, con ciò, il ritrarsi da un mondo umano, vissuto come pericoloso. La sensazione di perdita di controllo sul proprio mondo può portare alla nascita di un desiderio di maggior distacco dallo stesso, più che a una comunità solidale, come avvenne col fiorire delle scuole neosocratiche, nel tardo Impero. Il virus ha contribuito a mostrare come il mondo sia diseguale, come chi gode di maggiori previlegi possa sottrarsi alla sua morsa mentre chi è costretto a uscire allo scoperto o goda di una condizione di minore garanzia sanitaria ne sia vittima. È sufficiente vedere che cosa accade negli USA per avere una visione di tutto ciò”. 

A causa della pandemia il mondo si è fermato. A parte le risposte iniziali, andate dalla negazione al complottismo e passate per i caroselli sui balconi, si avverte una sospensione surreale: le città hanno un volto spettrale e si vive una sorta di separazione netta tra un “dentro” che protegge e un “fuori” minaccioso. L’altro costituisce, ad un tempo, l’oggetto da proteggere, e l’oggetto da cui difendersi. Che conseguenze avrà sulla nostra percezione futura e sui nostri comportamenti? Sarà necessario un passaggio di riabilitazione alla normalità?
“La reclusione forzata delle persone, assolutamente necessaria per poter limitare il contagio, ha generato un diffuso malessere psicologico. In alcune famiglie sono aumentate a dismisura le situazioni conflittuali, di fronte agli scontri, inevitabili, nei gruppi nei quali non sono presenti delle tecniche di compenso più evolute se non quella del mettere una distanza fisica dall’altro. Di fronte all’impossibilità di distanziamento le escalation simmetriche si sono accentuate hanno portato a vere e proprie tragedie famigliari. In chi era già in difficoltà con il rapporto con l’esterno, per la presenza di strutture fobiche, la reclusione potrebbe avere accentuato la tendenza al sottrarsi al contatto con l’esterno in chi soffre di depressione, anche l’impossibilità di movimento e la passività indotta dalla quarantena, possono accentuare la profondità del malessere o facilitare una ricaduta”. 

Più in generale, alla luce delle conseguenze ma anche delle cause, dato il nesso che sembrerebbe esserci tra le modificazioni ambientali e la comparsa del virus, secondo lei, sapremo raffigurarci e agire secondo la supremazia di zoé su bìos? 
“Quest’ultima domanda è molto complessa. Anni fa il professore Emanuele Severino, in uno dei suoi bellissimi seminari sul senso della storia in Occidente, spiegava che nel mondo del divenire non esistesse un bebaiotate, un’archè, un episteme, (principium firmissimus) per questo lui immaginava che tutte le ideologie, tutti i valori forti, come il Comunismo, il Cristianesimo e il Capitalismo, fossero destinanti al tramonto. La supremazia della zoè (vita universale) su bios (vita umana) rimanda a questo, al superamento del Capitalismo come sistema di produzione, un sistema profondamente incardinato nella volontà di potenza, l’età della tecnica di Heidegger, il dominio degli uomini di fatto della crisi husserliana. Il riconoscimento di zoè sarebbe un mutamento di paradigma verso la presa di coscienza di reciproca appartenenza Uomo Mondo e di rispetto di questo, il professore individuava in questo il passo successivo della storia dell’Occidente”. 

Sonia Melis

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3 Comments

  1. Sergio says:

    Questa intervista andrebbe riletta alla luce di ciò che oggi sappiamo per certo: il SARS COV 2 effettivamente è un virus creato in laboratorio a seguito della procedura “gain of function”, lo ammette persino Anthony Fauci. Chi sosteneva sin dall’inizio questa tesi, rivelatasi poi giusta, ha subito una vergognosa caccia alle streghe, culminata proprio con la psichiatrizzazione del dissenso. Gli psichiatri su questo dovrebbero riflettere, su quanto sia facile per il governo di turno trasformare tutti loro in uno strumento di oppressione del libero pensiero.

  2. Questa intervista mi ha fatto ritornare giovane, nei banchi del liceo, con il sottofondo del professore di filosofia che spiegava mentre lo sguardo vagava fuori dalla finestra, nel cielo azzurro, e la mente chiedeva, pigramente, solo una cosa: “ma domenica Ranieri chi schiera: Paolino o Provitali?!”

    • si, è l’eterno conflitto che alberga nella mente umana, fra l’ impegno e la pigrizia.
      senza moralismi, abbiamo bisogno di entrambi, anche se… l’ impegno è più difficile

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