Politica / Sardegna

“La Grecia sta meglio della Sardegna: perché almeno ha rialzato la testa”, di Enrico Lobina

Atene

Atene, manifestazione in piazza Syntagma 

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La Grecia ha conosciuto, negli ultimi anni, la peggiore crisi economica nella sua storia recente. Dal 2008 ad oggi la sua economia si è ridotta del 25%. Il tasso di disoccupazione ha raggiunto il 25,8% e, dopo decenni di crescita economica, oggi la Grecia ha il 21,3% di poveri. Dal 2008 una piccola e media impresa) su quattro è fallita [1]. Secondo un recente sondaggio sette greci su dieci sono pronti a lasciare il paese per trovare un lavoro.

A questa situazione il popolo greco ha risposto rifiutando il piano di “salvataggio” dell’economia imposto dalla troika (Fondo Monetario Internazionale, Commissione Europea e Banca Centrale Europea), che ha costretto il Paese a enormi tagli nella spesa pubblica senza però generare alcuna prospettiva di crescita. L’FMI prevedeva che, con l’applicazione della ricetta della troika, nel 2013 il Prodotto Interno Lordo della Grecia sarebbe cresciuto del 2,1%, mentre la disoccupazione si sarebbe attestata al 14,3%. I dati reali, però, sono ben diversi.

Il nuovo capo del governo, Alexis Tsipras, ed il suo ministro delle finanze, Yanis Varoufakis, rigettano il principio dell’austerità, secondo il quale i tagli alle spese e la compressione salariale sono la soluzione per far ripartire i paesi europei in crisi. In questi giorni il braccio di ferro tra l’Unione Europea e la Grecia è durissimo, ed i risultati e gli scenari futuri imprevedibili.

Insieme alla Grecia, Cipro, Spagna, Portogallo ed Irlanda hanno vissuto cure simili, ma non hanno avuto politici in grado di mettere in discussione le ricette economiche che arrivavano da Bruxelles. In Spagna si andrà al voto ad ottobre, e Podemos (alleato di Syriza) potrebbe vincere. In Irlanda, l’anno prossimo, lo Sinn Fein, anch’esso legato a Syriza, potrebbe vincere su posizioni che contrastano le politiche di austerità, con l’obiettivo di riunificare il paese.

L’Italia balbetta. Anzi, l’Italia ha scelto una strategia diversa, per bocca del PD: rispettare il Patto di Stabilità e fare riforme strutturali, nella speranza di ottenere più flessibilità nell’applicazione delle regole fiscali.

Finora, però, questa linea non ha prodotto risultati: l’economia resta stagnante, la disoccupazione altissima, e in Europa la linea (tedesca) dell’austerità senza sconti e flessibilità non è stata intaccata. Al contempo, i diritti dei lavoratori sono stati messi in discussione con l’abolizione dell’art. 18 e l’introduzione del contratto “a tutele crescenti”, la cui applicazione è tutta da verificare ed i tanto proclamati benefici (nuove assunzioni) appaiono fortemente dubbi. Il comportamento delle classi dirigenti italiane e di quelle greche, anteriori a Syriza, è paragonabile. Il principio da seguire è che il popolo deve pagare le colpe delle classi dirigenti. In questa ottica, oggi la Grecia sta meglio dell’Italia, perché ha alzato la testa.

E la Sardegna?

In Sardegna l’ultimo dato sul tasso di disoccupazione segna 19,1%, contro il 25,8% della Grecia, entrambi ancora in salita [2]. Sul fronte del reddito pro capite, invece, viviamo una forte vicinanza: viaggiamo tutti e due al di sotto dei 20.000 euro pro capite, precisamente 19.300 euro per la Grecia e 19.700 per la Sardegna [3]. Lo stesso ragionamento si può fare sulle persone a rischio povertà: se in Grecia rappresentavano il 23,1% della popolazione nel 2013, in Sardegna siamo al 21,8%.

In Sardegna la presenza di un sistema sanitario nazionale diffuso, e di reti di protezione sociale informale, permettono che il fenomeno non emerga nella sua forza. Ma è questione di tempo.

Mettiamoci l’anima in pace: la Sardegna, su molti dati macroeconomici, non vive una condizione diversa dalla Grecia e dagli altri paesi del sud. Siamo come la Grecia, e non ce ne siamo accorti.

Dal punto di vista politico, niente di simile a Syriza o Podemos appare all’orizzonte. Le proposte di governo di regione e comuni non riprendono nulla di quella spinta alla partecipazione popolare, che abbia l’obiettivo della rottura del quadro dato.

Ecco la differenza: abbiamo bisogno della rottura del quadro dato o possiamo andare avanti facendo aggiustamenti?

In Grecia ed in Spagna i subalterni (spesso giovani) hanno preso la parola ed impongono un cambio di paradigma. In Sardegna pare che la famosa domanda “can the subaltern speak?” [4] di Spivak, che riprende un concetto di Antonio Gramsci, debba avere una risposta negativa.

Il subalterno non parla, e gli intellettuali o non sono organici a quella parte di mondo o fanno finta di esserlo ma, in realtà, non lo sono. Con intellettuali qua intendiamo il vasto ceto, piccolo e medio borghese, che aspira a dirigere, o dirige veramente, gli spazi di potere lasciati in Sardegna nel settore politico, sociale, culturale ed economico.

In questa terra, dove ogni anno dovremmo incassare dallo Stato circa 900 milioni di euro (così stabilisce il nostro statuto), e dove tra servitù, problemi sanitari, impoverimento del sistema dell’istruzione, culturale ed informativo, sembra di vivere in un incubo, niente. Niente.

Vi è una incapacità totale di vedere gli invisibili, quelli che non affollano i social network, che non entrano nei consigli comunali o regionali perché non hanno studiato, quelli che comprano le candele in drogheria perché non hanno più la luce, o che si avvicinano al macellaio alla chiusura per chiedere di avere ciò che è rimasto gratuitamente.

Mi si dirà, me lo si dice ogni giorno a Cagliari, “non si può fare molto, noi non risolveremo problemi così grandi”. Ma allora perché andare a votare?

E poi, andate a vedere cosa fanno i governi locali in Attica (prima della vittoria a livello nazionale) o in tante altre realtà greche, o in qualche realtà spagnola [5]. Non è vero, care signore e signori della Regione, o della capitale della Sardegna, che non si può fare nulla.

Non è il primo segno del trasformismo (sempre Antonio Gramsci) prendere impegni per tutta la vita e poi, una volta arrivati nella stanza dei bottoni, allargare le braccia e dire “non si può fare”?

Enrico Lobina

 

[1] Cfr, per esempio, http://blogs.wsj.com/briefly/2015/01/20/crisis-in-greece-the-numbers/

[2] Da un punto di vista statistico, non è corretto mettere a confronto dati nazionali (Grecia), con dati regionali (Sardegna). Sarebbe più corretto mettere a confronto una regione della Grecia con la Sardegna. Sarà ciò che faremo nelle prossime settimane. Data l’urgenza del tema, però, preferiamo comunque avanzare questa parziale comparazione, che ha, quindi, ha un valore eminentemente politico. Sul dato relativo alla disoccupazione in Sardegna cfr. http://www.sardegnalavoro.it/download/Novembre%202014.pdf. Sulla disoccupazione in Grecia http://ec.europa.eu/eurostat/statistics-explained/index.php/File:Unemployment_rates,_seasonally_adjusted,_December_2014.png

[3] Il dato sulla Grecia è una media degli ultimi anni, e la fonte è la Banca Mondiale, mentre il dato per la Sardegna fa riferimento al 2012, e la fonte è l’ISTAT.

[4] “Può il subalterno parlare?” è la traduzione in italiano.

[5] http://www.voxeurop.eu/it/content/article/4886253-nel-laboratorio-politico-di-syriza

 

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8 Comments

  1. Ospitone says:

    Condivido tutto.
    Sono sollevato da questa presa di coscienza ,di una parte della sinistra Sarda…(o di quello che ne rimane).Ma nulla che un comune cittadino, non sperimenti ogni giorno sulla sua pelle,analizzando secondo per secondo,la vita difficile che deve affrontare.
    Alla politica oggi si chiedono soluzioni,possibilmente preventive,per le analisi siamo in forte ritardo.

  2. Zio Zack says:

    OT
    Bel figlio di puttana.
    “Sostenete il mio governo.
    Vi prometto la piena occupazione entro due anni”.
    Quello sguardo ostenta l’arrogante sicurezza di chi ha un piano in mente. Beffardo.
    Vederlo in TV dopo tanti anni quasi mi commuove.
    Un omaggio al suo discorso d’insediamento.
    Bel figlio di puttana.
    Con espressione innocente bolla le critiche ancora inespresse come attentato al cammino di rinnovamento da parte dei soliti noti, partigiani dello status quo.
    Bel figlio di puttana.
    Mantenne la parola.
    Il primo anno non ebbe grossi risultati: la disoccupazione calò di ben sette punti in percentuale, ma comunque ancora lontano mille miglia dall’obiettivo prefissato. Lui intanto si era buttato nel rilancio dell’edilizia. Fece costruire nuove carceri in ogni dove, suscitando l’ilarità dei soliti noti, ma tenne duro e alla fine del secondo anno annunciò trionfante il mantenimento della promessa: la disoccupazione poteva essere sconfitta solo mettendola fuorilegge.
    Bel figlio di puttana.
    Ora devo spegnere la TV.
    La guardia ha picchiato sulle sbarre.

    Hasta sempre
    Zio Zack

  3. L’unica cosa paragonabile alla Grecia è il tasso di clientelismo e assistenzialismo esistente in Sardegna. Per il resto non vedo cosa c’entri la troika coi 3 miliardi di euro della sanità regionale (che costano più della sanità lombarda, con quasi 10 milioni di abitanti). Con enti e sottoenti inutili e con tasse e burocrazia che stanno stritolando le poche imprese (assistite) rimaste.
    I popoli pagano sempre le colpe delle proprie classi dirigenti che hanno eletto, è una cosa ovvia. L’unica nota positiva dei greci è che hanno cercato di opporsi ad una Europa tecnocratica e accentratrice, per il resto non hanno minori responsabilità dei tedeschi.
    Oggi sappiamo bene quali dinamiche del voto continuano a consegnare la maggioranza ai partiti italiani in Sardegna e non all’indipendentismo. Oppure ancora: che colpe abbiamo se la politica ha disastrato una realtà come Abbanoa? Si, forse è vero, i sardi non alzano la testa, e la politica – anche quella sovranista – fa pagare il conto a cittadini e aziende in difficoltà.

    Concordo poi sulla necessità di sviluppare la vertenza con lo Stato. Ma lasciamo perdere i paragoni fra il populismo della sinistra greca e l’indipendentismo: il primo passerà, come la moda greca, il secondo ha ancora un grosso lavoro di riorganizzazione (anche culturale) su cui basare il proprio futuro.

    Mi spiace molto che una parte della sinistra cagliaritana continui ad ascrivere il proprio perimetro ideologico in stretta continuità con quella italiana, dove si deve sempre cercare qualche mito esterno da inseguire o emulare pur di argomentare un percorso politico.

  4. Alessio says:

    Cari Vito ed Enrico. Vi propongo questo interessantissimo articolo di Paul Krugman (il Nobel per l’Economia) sulla follia in termini economici-razionali delle politiche di austerity.

    di Paul Krugman

    Secondo molti economisti, compresa la presidente della Federal Reserve statunitense Janet Yellen, i guai dell’economia globale dal 2008 in poi sono dovuti soprattutto al deleveraging o riduzione della leva finanziaria (ovvero il tentativo simultaneo di ridurre il livello d’indebitamento in tutto il mondo). Perché la riduzione della leva finanziaria è un problema? Perché la spesa di Tizio è il reddito di Caio e la spesa di Caio è il reddito di Tizio: perciò, se tutti tagliano la spesa nello stesso momento, il reddito cala in tutto il mondo. Come ha detto Yellen nel 2009, “quelle che per i privati e le imprese sono giuste precauzioni – e anzi, sono essenziali per riportare l’economia alla normalità – purtroppo aggravano le difficoltà dell’economia in generale”. Quanti progressi abbiamo fatto nel riportare l’economia alla “normalità”? Nessuno.
    Le autorità politiche e finanziarie hanno agito partendo da una lettura sbagliata del debito, e i loro tentativi di ridimensionare il problema in realtà lo hanno aggravato. Innanzitutto, i fatti: da un recente rapporto del McKinsey global institute intitolato “Debito e (non molto) deleveraging” emerge che il rapporto tra debito complessivo e pil non si è ridotto in nessun paese del mondo. Il debito privato è calato in alcuni paesi, specialmente negli Stati Uniti, ma è cresciuto in altri, e dove c’è stata una significativa riduzione dell’indebitamento delle aziende e dei cittadini il debito pubblico è cresciuto più di quanto è diminuito quello privato.
    Qualcuno penserà che se non siamo riusciti a ridurre il rapporto tra debito e pil è perché non ci abbiamo provato: famiglie e governi non si sono impegnati abbastanza a stringere la cinghia, perciò ci vuole più austerità. La realtà, però, è che non abbiamo mai avuto tanta austerità. Come ha osservato il Fondo monetario internazionale, la spesa pubblica reale al netto degli interessi è scesa in tutti i paesi ricchi: ci sono stati pesanti tagli nei paesi indebitati dell’Europa meridionale, ma ci sono stati tagli anche in paesi come la Germania e gli Stati Uniti, che pure sono in grado di finanziarsi a tassi d’interesse vicini ai minimi storici.
    Tutta questa austerità ha peggiorato le cose. Era prevedibile, perché l’invito a risparmiare si è fondato su un fraintendimento del ruolo del debito nell’economia. L’equivoco è evidente ogni volta che qualcuno si scaglia contro il deficit con slogan come “Smettiamo di rubare ai nostri figli”. Apparentemente suona bene: le famiglie che s’indebitano s’impoveriscono, perciò vale lo stesso per il debito pubblico, giusto? Niente affatto. Una famiglia indebitata deve dei soldi a qualcun altro, mentre l’economia deve dei soldi a se stessa. È vero che i paesi possono indebitarsi con altri paesi, ma dal 2008 l’indebitamento degli Stati Uniti con l’estero è diminuito, mentre l’Europa è in credito netto con il resto del mondo. Siccome sono soldi che dobbiamo a noi stessi, il debito non rende direttamente l’economia più povera, e rimborsarlo non ci rende più ricchi.
    Il debito può rappresentare una minaccia alla stabilità finanziaria, ma la situazione non migliora se per ridurlo si spinge l’economia verso la deflazione e la depressione. Il che ci riporta agli eventi delle ultime settimane, perché c’è un collegamento diretto tra l’incapacità di ridurre l’indebitamento e la crisi politica che sta emergendo in Europa. I leader europei sono convinti che la crisi economica sia stata provocata da un eccesso di spesa da parte di paesi che hanno vissuto al di sopra delle proprie possibilità. La strada giusta, secondo la cancelliera tedesca Angela Merkel, è il ritorno alla sobrietà. L’Europa, ha detto, dev’essere parsimoniosa come la proverbiale casalinga sveva.
    Questo ha provocato una catastrofe al rallentatore. I debitori europei dovevano sì stringere la cinghia, ma l’austerità che sono stati costretti ad adottare è stata incredibilmente brutale. Nel frattempo, la Germania e altre grandi economie – che dovevano spendere di più per compensare la contrazione nella periferia – hanno cercato a loro volta di spendere meno. Così si è creata una situazione in cui ridurre il rapporto tra debito e pil è diventato impossibile: la crescita reale ha rallentato bruscamente, l’inflazione è scesa quasi a zero e nei paesi più colpiti è arrivata addirittura la delazione. I poveri elettori hanno sopportato questo disastro per un tempo sorprendentemente lungo, credendo alla promessa che presto i loro sacrifici sarebbero stati ripagati. Ma dato che le difficoltà continuavano ad aumentare senza produrre risultati, la radicalizzazione è stata inevitabile.
    Chiunque si sorprenda della vittoria della sinistra in Grecia o dell’avanzata delle forze anti-establishment in Spagna non è stato abbastanza attento. Nessuno sa cosa succederà ora, anche se i bookmaker considerano sempre più probabile l’uscita della Grecia dall’euro. Forse i danni si fermeranno qui, ma io non credo: l’uscita della Grecia minaccerebbe l’intero progetto della moneta unica. E se l’euro fallirà, sulla sua lapide bisognerà scrivere: “Morto per un’analogia sbagliata”.

    Fonte: Internazionale #1089 del 13 febbraio 2015.
    Tratto da: http://fondazionepintor.net/economia/krugman/equivoco.

  5. Caro Enrico, a parte l’amarcord per le idee gramsciane, le tue stesse considerazioni le sentivo non piu’ tardi di un mese fa in bocca a Marine Le Pen che le rinfacciava ad un imbolsito Massimo D’ Alema. La domanda esatta pero’ che gli poneva non era perche’ andare ancora a votare ma un’ altra piu bruciante: perche’ vi presentate ancora agli elettori se il vostro programma politico e’ la fotocopia dei programmi di sviluppo delle maggiori banche dell’ area euro? Sanno fare anche da sole i loro comodi LE BANCHE!!!

  6. Di Legno says:

    Eia.

  7. Grazie per aver pubblicato questo articolo.

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