Politica / Sardegna

“La vera riforma della Regione? Non è quella targata Demuro ma passa per un nuovo statuto”, di Giuseppe Corongiu

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“Ma se domani Renzi cancellasse l’Autonomia speciale chi se ne accorgerebbe?”. Così dicevo a un amico l’altro ieri con convinzione. La risposta è scontata: solo gli intellettuali, i politici, i dirigenti e dipendenti, e tutti coloro che guardano alla Regione come a un bancomat. Per il resto, la Sardegna della vita reale, le altre istituzioni, i cittadini, gli enti locali, a parte le proteste di rito, non si straccerebbero le vesti. Fuori da via Roma, e dalle sedi ufficiali, esiste un altro mondo istituzionale fatto di prefetti, capitanerie, sovrintendenze, polizie, questori, agenzie, dogane, istituti, autorità, direzioni, comuni, province, tutte amministrazioni di derivazione statale che amministrano la Sardegna e i sardi già come se non fossimo una Regione a statuto speciale. E il bello è che lo fanno da sempre. Cosa cambierebbe per loro?

Siamo noi con la nostra cultura politica, con i media, con la voglia di immaginarci nazione, che conferiamo a un ente fra i tanti che operano in Sardegna un ruolo simbolico che non ha riscontro nell’operatività. La Regione Autonoma è ciò che è, o sembra, più per nostra propensione e proiezione ideologica che per poteri conferiti.

Sto seriamente prendendo in considerazione l’ipotesi di quegli indipendentisti che sostengono che questo statuto speciale vigente in fondo sia solo un palliativo che blocca, invece che promuovere, l’autodeterminazione dei sardi. Se fosse rimosso, in fondo, non sarebbe un dramma ma l’inizio della risalita, dicono. Per questo mi lascia molto perplesso l’enfasi che si è cercato di costruire attorno alla proposta di legge cosiddetta di “riforma della Regione” presentata dalla Giunta e dall’assessore Demuro qualche mese fa e che è stato approvata dal Consiglio il 19 novembre.

In realtà, a mio modesto avviso, si tratta semplicemente di un “riordino” delle competenze e delle procedure che riguardano il personale dell’ente e nulla di più. Non mi pare che ci siano rivoluzioni o scenari escatologici tali da poter evocare il concetto di “riforma”. Si tratta di norme sacrosante, auspicabili e persino “necessarie”, ma solo per il fatto che, negli anni, la macchina burocratica regionale è rimasta avulsa da una miriade di processi innovativi e performativi che in Italia hanno riguardato tutte le altre amministrazioni. Da alcuni aspetti della Bassanini, al ciclone Brunetta, alle ultime novità di Renzi i dipendenti e i dirigenti regionali sono stati “protetti” e messi al riparo. Dunque, urge un riallineamento in nome dell’efficienza.

Si, perché è assurdo che per spostare un dipendente da un assessorato all’altro o da Laore alla Programmazione, o viceversa, ci volesse una legge del Consiglio. O che il Consiglio dovesse legiferare sulle modificazioni dei servizi all’interno degli assessorati. O che non ci fosse più una legge sui comandi (fatta sopprimere qualche anno fa dai sindacati) e che i dirigenti non fossero valutati da un soggetto terzo esterno che a fine anno verifica le performance con criteri oggettivi come in qualsiasi comune sopra i 15 mila abitanti.

Così come è irragionevole che alla parte politica vengano imposti lacci e lacciuoli senza avere possibilità di ampia scelta e rapido ricambio nelle direzioni generali, nelle direzioni di servizio e, in generale, nel personale che affianca l’attività di governo. La burocrazia regionale, in tutti questi anni, con la scusa di risparmiare, si è protetta e tutelata verso l’esterno bloccando accessi vari. In un certo senso ha giocato a tenere in ostaggio assessori e consiglieri rendendosi indispensabile. È normale che ora, questi vogliano almeno incrementare la mobilità interna e rendere più facile il ricambio e la scelta dei dirigenti e dei servizi. Non c’è niente di male, la politica, legittimata dal voto dei cittadini, ha il diritto di potersi scegliere le professionalità con le quali vuole governare. Gli sbarramenti imposti dalle corporazioni interne portano ricatto morale, lentezza e inefficienza.

È dunque un buon riordino organizzativo della macchina del personale questo progetto di legge, ma non certo una “riforma” né tantomeno una rivoluzione. Può sembrare tale solo agli occhi dei sindacati dei regionali, una vera e propria consorteria conservatrice delle più agguerrite e retrive. Infatti, le scelte più coraggiose, quelle più vicine a una riforma vera (mobilità esterna, ruolo unico con gli enti locali, aperture e scambi con altre amministrazioni) sono state evitate o rimandate e nel complesso, rispetto alle altre amministrazioni italiane, alla fine del giro, non ci saranno stravolgimenti o grandi novità.

Invece, se si volesse dar retta al blog dell’amico Roberto Carta, si legge che lo stesso Demuro avrebbe dichiarato ai sindaci che «vedere la Regione dal di dentro significa capire come la macchina regionale venuta su, stratificazione dopo stratificazione, altro non sia che un sistema amministrativo e legislativo fisiologicamente autobloccante. Perché tutto ciò? A causa dell’eterna e angosciante paura dei sardi». (cit. https://robertocarta.wordpress.com/2014/09/30/lassessore-demuro-le-elites-sarde-sono-sempre-state-gattopardesche/)

Ma il provvedimento proposto affronta questo nodo della paura della responsabilità e infine del terrore della sovranità? Direi di no. La legge invece rispecchia esattamente l’incapacità attuale della Regione di vedersi, rappresentarsi e agire in piena responsabilità in nome e per conto dell’intera Sardegna. E di scommettere su questa responsabilità quale chiave di volta della riforma stessa.

In realtà si ripiega in se stessa e si occupa dei propri equilibri interni tra politica e burocrazia.

Con queste norme non si cambia il dato fondamentale della sua identità che resta tutta chiusa nel suo piccolo ruolo di ente amministrativo sussidiario che solo a livello politico e simbolico svolge la funzione da noi immaginata. La legge Demuro in sostanza regola rapporti solo interni alla torre eburnea e rifiuta il dialogo, lo scambio e anche il confronto con l’esterno. Una presa d’atto della realtà effettuale, ma anche la conseguenza della scelta di non affrontare i veri nodi delle riforme. Una rinuncia a una sovranità possibile e quindi un ripiegarsi all’interno a regolamentare problemi, importanti certo come la gestione del personale, ma non di largo respiro. Passa la logica del sindacato non certo quella di una politica riformatrice e creativa.

Quindi ad esempio mentre nei comuni i dirigenti sono sottoposti sempre a una logorante ma giusta competizione attraverso lo strumento di inserimenti di dirigenti esterni a contratto (ex art. 110 del Testo Unico), la dirigenza regionale riesce a “gestirsi” la politica senza subire colpi di nessun genere al suo status. I concorsi sono rari, i comandi episodici, la mobilità esterna impossibile. Insomma, gli assessori di turno si devono accontentare di scegliere in quello che passa il convento. A questo scopo, si chiudono le porte accampando ottime ragioni legali, ma è un dato di fatto che numerosi dirigenti attuali (anche di grado elevato) non sono certo entrati in Regione con un concorso pubblico. Ciò non toglie a onor del vero che ce ne siano anche di validi. Peccato che siano loro stessi ad attestarlo, o i loro direttori generali, ad attestarlo.

Si tratta di esempi forse parziali, forse minimi, ma che aiutano a capire perché un assessore vada in Regione con grandi idee e grande voglia di fare e di cambiare e poi si trovi in un pantano burocratico inestricabile. Si diventa schiavi della routine emergenziale spesso artefatta, si approvano delibere che non si vorrebbero approvare, si fanno una marea di atti inutili, si dedica una fetta importante del tempo alla composizione di problemi di funzionamento e non di soluzione di emergenze di rilevanza esterna. Si finisce insomma per essere schiacciati dentro una logica tutta autoreferenziale, elefantiaca e funzionale alla conservazione del fortino.

Questo però perché si evita di fare la vera riforma della Regione, cioè un nuovo statuto speciale con più poteri, che assolva al ruolo vero quello della sovranità e della spinta per un ulteriore autodeterminazione. Una riforma che superi la gabbia della sussidiarietà e metta la Regione in posizione di supremazia rispetto alle altre pubbliche amministrazioni “sarde” che invece oggi hanno come referente lo Stato italiano e guardano alla Regione come una sorte di cassa continua (quando si accorgono di lei). Con la conseguenza che i dirigenti regionali interpretino con responsabilità e giudizio il fatto di essere dei civil servant di una nazione che aspira a non essere più solo immaginata. Parte di una classe dirigente all’altezza del ruolo. Senza quella paura di cui parlava Demuro. E non degli impiegati che interpretano le leggi asetticamente e deresponsabilmente come se lavorassero al catasto o all’ufficio postale.

In questo terreno fondamentale, che porterebbe l’istituzione autonomistica a porsi il problema di un dialogo e di una compenetrazione con le altre istituzioni che veramente presidiano e amministrano la Sardegna, in attesa di nuove proposte, la cosiddetta riforma Demuro non mi sembra che porti niente di nuovo.

Giuseppe Corongiu

 

9 Comments

  1. Marco Deplano says:

    ma il senso di questo articolo me lo spiegate? Diffido molto dei tuttologi. Quelli che parlano di lingua sarda e vogliono decidere unilateralmente per questa. Senza contraddittorio. Additando gli altri come eretici. Sebbene non siano linguisti e non abbiano mai insegnato sardo. Gli stessi tuttologi che criticano tecnicamente un provvedimento normativo e non sono neanche giuristi. La riforma dello Statuto RAS è in cantiere ed è l’unica vera risorsa che potrà salvare i sardi dall’accentramento progressivo voluto dal governo italiano. Ci vuole tempo, studio e concertazione per ridefinire una legge di rango costituzionale che rappresenta il futuro potere contrattuale dei sardi nei confronti di Roma. Occorrono anche coraggio, e capacità tecnica. Strumenti che Demuro sta usando, nonostante i pareri contrari. Mi piacerebbe leggere critiche motivate, magari nel merito, scevre da rancore per faccende soggettive. O, perché no, sarebbe bello percepire delle proposte.. Altrimenti un silenzio riflessivo, magari improntato all’autocritica, non guasterebbe. Per la cronaca, la notizia del Ddl 72, che è una fase, non un punto d’arrivo, è questa qui: http://www.regione.sardegna.it/index.php?xsl=25&s=268368&v=2&c=4144&t=1&httphst=www.regione.sardegna.it

  2. Paolo Leone Biancu says:

    Trovo l’articolo di G.Corongiu interessante per i diversi temi che tratta ma, sopratutto, perchè non avevo mai letto un’analisi della RAS secondo tale punto di vista, di uno che conosce le cose dall’interno e tenta di spiegarle in maniera seria. Credo però, e non me ne voglia Pepe Corongiu, che se suddividerò tale articolo in varie parti, molti di più potranno conoscere i problemi della RAS, la mancanza di operatività che tutti Noi cittadini gli imputiamo, le ragioni di un “NON ESSERE” di tale ENTE (RAS), inutile sotto svariati punti di vista..

  3. Devo dire che l’intervento di Giuseppe Corongiu presenta diverse considerazioni ampiamente condivisibili. Sopratutto i temi legati alla mobilità, valutazione dei dirigenti, disparità di trattamento rispetto ai dipendenti degli enti locali, sindacati regionali. Però avrebbe dovuto precisare che il suo ragionamento nasce da una questione personale: essendo un dipendente di ruolo di ente locale e stato costretto a lasciare la direzione del servizio di lingua sarda per scadenza dei termini di legge (trattavasi di comando dall’esterno). Così giusto per avere un quadro chiaro della situazione.

  4. Il Sole 24 Ore, un giornale, caro Gaetano, che scrive in italiano senza neanche una pagina in sardo, spiega bene quale dovrebbe essere la vera riforma della Regione:
    http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2013-01-02/cagliari-spesa-senza-fondo-063853.shtml?uuid=AbmawhGH
    “Sono soldi spesi bene?”

  5. Gaetano…. questa è spicciola provocazione che rasenta il nulla. L’Italiano serve sopratutto per coloro i quali una lingua Sarda comune non la vogliono!

  6. gaetano says:

    Poita non asi scrittu in sardu…poita si iscriri is sardu sceti candu si chistionada de limba?

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