Cultura / Sardegna

“Come nasce un circolo dei sardi all’estero? Le gioie e i dolori dei seicentomila isolani nel mondo”, di Massimiliano Perlato

(Magalì Misses Serra, giovane del circolo “Radici sarde” di San Isidro in Argentina. Foto dal blog Tottusinpari)  

Oltre che su questo blog, questo articolo viene pubblicato anche sui siti Fondazione Sardinia, Tramas de Amistade, Madrigopolis, SardegnaSoprattutto, Sportello Formaparis, Tottusinpari e sul blog EnricoLobina.

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Più senti nostalgia, più hai voglia di pensare alla Sardegna. Più vedi fuori dalla finestra le ciminiere delle industrie che sputano fuliggine, più pensi alle montagne verdi della Sardegna. Più vedi le fontane ghiacciate in qualche piazza di qualche metropoli europea, più pensi al mare cristallino della Sardegna, invitante anche d’inverno. Più pensi alla Sardegna, più hai voglia di coinvolgere gli altri sardi, anche quelli che vivono migliaia di chilometri lontano. Magari fondando un circolo, dove far sventolare la bandiera dei quattro mori, dove appendere il poster di Gianfranco Zola, simbolo di una emigrazione vincente.

Il “mal di Sardegna”, è vero, è una malattia, ma che ha dato l’occasione di aprire tanti circoli sparsi fra i continenti. La voglia di ritrovarsi, di ricordare momenti di “vita sarda”, risale al dopoguerra, quando molti isolani tentarono di far fortuna nella penisola e all’estero. Ma come nasce un circolo? Quali carte bisogna avere, a parte tanta passione e tanta nostalgia per istituire un angolo di Sardegna oltremare?

Innanzitutto ci vogliono la testardaggine, cosa di cui i sardi, per tradizione, non difettano. E tanta, tanta pazienza. Aprire un circolo è cosa lunga di due o tre anni, tra domande, documentazione da presentare alla Federazione di appartenenza e alla Regione Sardegna e numerose verifiche. Ma soprattutto ci vogliono i soldi e neanche pochi. Inutile contare sui contributi della Regione, che arrivano magari quando ci si è ormai dimenticati di averli chiesti. Per inaugurare un nuovo circolo ci vuole un bel gruzzolo, da anticipare per mettere su una sede, pagare affitto, luce, telefono, riscaldamento. E magari può essere necessario l’aiuto di una segretaria, per l’organizzazione di attività culturali e spettacoli che costano sempre più.

Questo soltanto per partire, con la speranza che poi Mamma Regione, un anno dopo, si “ricordi” di finanziare le spese anticipate dai soci. Ma se anche i soldi ci sono, servono determinazione e pazienza. Occorre, se si vuole, il riconoscimento della Federazione prima e della Regione poi, dimostrare di avere le carte in regola per poter fare domanda.

Sia la Federazione che la Regione richiedono che i circoli siano in determinate condizioni: saper camminare con le proprie gambe, in parole povere avere autonomia finanziaria; dimostrare l’iscrizione di almeno cento soci; garantire una gestione assembleare e democratica con tanto di elezioni interne; disporre di una sede adeguata; riunire all’interno del circolo non sardi presi a caso, ma rappresentativi di una certa comunità (logudorese, gallurese, cagliaritana, ogliastrina ecc.). Se ci sono questi requisiti, la Federazione spedisce al futuro circolo uno statuto tipo, che servirà come esempio per la scrittura del nuovo.

Intanto, tra domande, moduli da compilare, attesa per le risposte, i mesi passano veloci come l’entusiasmo iniziale. Alcuni mollano subito, altri dopo due o tre mesi. C’è invece chi arriva alla fine e viene contattato dalla Federazione, che si preoccupa di seguire passo passo tutto l’iter, per l’atto formale di costituzione del circolo, che di solito avviene dal notaio. Il riconoscimento da parte della Regione Sardegna è invece un valore aggiunto del circolo, visto che sulla sua nascita si pronunciano l’Assessore al Lavoro prima e la Giunta poi.

Troppi i circoli in Italia? Se una comunità di sardi, anche nella penisola, vuole fare del bene per la Sardegna, meglio così. La FASI (Federazione delle Associazioni Sarde in Italia) dà l’assenso. L’importante è che non sia una cosa temporanea né una “scusa” per ottenere finanziamenti pubblici.

La voglia degli emigrati di aprire nuovi centri di associazionismo è sempre elevata: è una spinta continua, spontanea e volontaria. Si stanno affacciando le nuove leve. Crescono le donne dirigenti e molte sono anche presidenti. Ma non tutte hanno ancora la voglia di assumersi grandi responsabilità. Però è scontato che senza di loro non ci sarebbe alcun tessuto associativo. Le donne rappresentano l’anello di congiunzione tra la società e la famiglia, anche all’interno di ogni singolo circolo.

Le note dolenti per le attività dei circoli arrivano purtroppo dalla Regione. Le innumerevoli crisi di questi ultimi lustri, le bocciature delle Finanziarie e i ritardi nell’approvarle hanno fatto sì che, nonostante la puntualità che i circoli osservano nello spedire documentazione e bilanci, i finanziamenti arrivano con grande ritardo. E poi il fatto che in Sardegna non si riesce ad apprezzare quel che si fa per l’isola, anche se, da questo punto di vista, l’opinione generale sta migliorando. In tutti questi anni ha influito negativamente una scarsa informazione.

Secondo consolidati studi, chi vive nelle zone interne dell’isola ha avuto o ha ancora un parente emigrato. Eppure non sa molto, o si dimentica in fretta, dell’importanza che può rivestire un circolo per chi lascia la terra natale. Ecco a cosa serve informare: a conciliare il sardo di Sardegna con il sardo emigrato.

Tra Melbourne e Ginevra, Monaco e Buenos Aires, i sardi nel mondo sono quasi 600mila. Buona parte ha lasciato l’isola durante le grandi ondate migratorie dagli anni Cinquanta agli anni Settanta del Novecento. Se a questa cifra si aggiungono le ultime generazioni, il numero tende notevolmente a salire. Il conteggio si complica riguarda alle comunità di più vecchio insediamento perché figli, nipoti e pronipoti di un emigrato alla fine dell’Ottocento sono difficili se non impossibili da quantificare. Oggi potrebbero vivere a Montreal o a Sidney, avere un cognome sardo o essersi sposati con stranieri e non parlare l’italiano. In questi casi si tratta di una moltitudine indeterminata, integrata in realtà sociali lontane e diverse dall’isola.

Anche le stime ufficiali evidenziano alcuni problemi. In base ai dati forniti dall’AIRE (Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero) che fa capo al Ministero dell’Interno, gli emigrati in Germania sarebbero quasi 25mila. Per le anagrafi consolari sono invece quasi 10mila in più. La stessa discrepanza emerge in Francia: 23mila per l’AIRE, 33mila per i consolati. Per la Gran Bretagna le due valutazioni differiscono di 2mila unità circa: 4mila contro 6mila. Probabilmente sottostimato è anche il dato riferito agli Stati Uniti d’America. L’AIRE conta poco più di mille sardi, 400 in meno della cifra elaborata dai consolati.

Nei quindici Paesi del mondo dove è presente il maggior numero di sardi, il totale raggiunge quota 80mila tenendo conto degli archivi AIRE, 113mila secondo il Ministero degli Esteri. Anche sommando i quasi 300mila emigrati che risiedono nelle regioni italiane, si arriva a una cifra troppo lontana da 600mila.

La notevole discrepanza tra i dati dell’anagrafe italiana e dei consolati si spiega analizzando i criteri di censimento. Il Ministero degli Esteri aggiorna i registri in seguito ai contatti diretti con gli emigrati. L’AIRE si basa sulle cancellazioni anagrafiche effettuate dai Comuni, una formalità burocratica che non sempre ci si preoccupa di sbrigare. Per questo le cifre sono sottostimate ma in compenso ricche di particolari sulla provenienza regionale.

A complicare le statistiche intervengono i casi di doppia cittadinanza. Confermando la cifra globale approssimativa e il fatto che non esiste ancora un censimento dei sardi all’estero, il Servizio Emigrazione dell’Assessorato regionale al Lavoro chiarisce alcuni aspetti: sino alla terza generazione si possono contare più o meno 600mila emigrati. Negli Stati Uniti si è arrivati ormai alla sesta generazione. I pronipoti potrebbero aver ben poco di sardo, se non le lontane origini ed i legami di sangue, ed è probabile che non facciano riferimento ad alcun circolo.

Massimiliano Perlato

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5 Comments

  1. salvatore says:

    Vorrei aprire un circolo a Londra. Ma questo articolo mi scoraggia. Sto pensando di organizzarmi in maniera indipendente dalla Regione Sardegna. Probabilmente sarà una cosa un po’ ortodossa, ma la vita corre veloce e non si può sempre e solo aspettare i contributi. Soprattutto di questi tempi

  2. sebastiano pisanu says:

    Vorrei aprire a salisburgo un circolo sardo

  3. Benche’ in ritardo leggo con piacere questo post. Devo pero’ aggiungere qualche cosina in piu’. Intanto non tutti i sardi all’estero sono iscritti all’AIRE e sono ben oltre i 600 mila..(e comunque sono quei 600 mila che puntualmente vengono contattati dalla natia patria solo durante le elezioni, ma anche no). Inoltre l’iscrizione all’AIRE non e’ un obbligo, ne vige una sanzione se non lo fai, basta leggersi la legge di 4 paginette. L’AIRE e’ uno strumento di contorllo governativo inventato nel 1988 per “monitorare” la statistica di chi abbandona l’Italia, controllare gli spostamenti, dove sei e cosa fai. Pura e mera statistica, pero’ puoi rinnovare la carta di identita’ e il passaporto (20% di costo in piu’rispetto al costo in italia) ma non puoi fare altri documenti… certificato di nascta, certificato di residenza, certificato penale ecc, che l’ambasciata dovrebbe garantire, ma non lo fa, perche’ l’ambasciata stessa non e’ altro che un ufficio gvernativo decentrato per seguire gli interessi non dei poveri cittadini, ma dei business man italiani, e dello stato Italiano, che investno in determinati paesi. Una sorta di mediazione coemmerciale con lo stato italiano e lo stato estero di pertinenza.
    Detto questo i circoli Sardi all’estero ormai hanno una connotazione completamente differente. Negli anni 70-80 aveva una significato diverso. Il mal di Sardegna ormai i sardi lo vivono piu’ itimamente e quasi schivano le comunita’ presenti nei territori. Alcune comunita’ sono addirittura farlocche, per giustificare l’esistenza di un circolo e usufruire di contributi regionali. (ma non tutti ovviamente sono nati per intascare). Ad ogni modo la situazione degli immigrati sardi e’ ormai cambiata, e’ andata modificandosi nel tempo, vuoi perche’ la societa’ cambia, vuoi perche’ ci sono i low cost, internet, comunciazioni piu’ semplici, web cam e via discorrendo. Rimane il fatto che il mal di Sardegna e’ un sentimento intimo e profondo, spesso difficile da condividere. Chiederei solamente di avere rispetto dei Sardi all’estero, che sono dei duri lavoratori che nemmeno qualcuno si immagina. La Sardegna pero’ gli ha abbandonati ormai, e intendo la Sardegna della politica. Non si stupiscano poi se il milione non i 600 mila Sardi all’estero non esprimono il proprio voto.
    La Sardegna e’ nel cuore, non nelle istituzioni.

  4. bachis efisi says:

    Condivido il post. Ci sono sardi nati e residenti all’estero, in argentina ad esempio, che parlano un sardo migliore del mio,come mi è capitato di constatare. Magalì Serra la bella ragazza della foto ha le sue radici nel mio paese.

  5. Masala Josiane says:

    Grande Massimiliano Perlato e grazie per questo articolo che riflette assolutamente la nostra realta….a pensare che oggi 29 ottobre ancora non abbiamo ricevuto il saldo del contributo 2012 e l’anticipo del 2013 🙁 come dobbiamo fare ?????????????????

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