Politica / Sardegna

“Progetto Rumundu: quando un sardo non accetta la maledizione della pentola bucata”, di Fabrizio Palazzari

Far circolare idee e punti di vista, analisi e considerazioni. Così come avvenuto in altre occasioni, anche questo pezzo che vi propongo (oggi firmato da Fabrizio Palazzari) viene pubblicato, oltre che da questo blog, dai siti AladinPensiero, Fondazione Sardinia e Tramas de Amistade.

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Agli inizi degli anni Ottanta l’economista Paolo Savona paragona l’economia della Sardegna a una “pentola bucata” a causa dei segnali di una crisi del modello di sviluppo imboccato a partire dagli anni Sessanta. Un modello che oggi appare irreversibilmente concluso.

La teoria della “pentola bucata” fotografa da una prospettiva macroeconomica i risultati di un modello di sviluppo, basato sull’industrializzazione ad alta intensità di capitale pubblico e sul potenziamento della nascente industria turistica, che determinò profonde e radicali trasformazioni culturali e sociali della società sarda accompagnate dall’abbandono di modelli economici consolidati, soprattutto in campo agricolo e pastorale, in virtù di modelli ritenuti più moderni.

Spesso il “non sapere”, il fatto che non si possedessero gli strumenti culturali e analitici per valutare la portata globale di quei modelli, giustificò l’accettazione degli stessi. In realtà alcuni sapevano e cercarono, con straordinaria capacità di analisi, di animare un dibattito. Come nel caso, per esempio, degli scritti di Antonio Simon Mossa relativi all’industrializzazione della piana di Ottana o alla nascente industria turistica della Costa Smeralda. Il problema è che quel sapere non divenne mai un sapere generalizzato e condiviso.

Oggi quel mondo sta venendo meno. Dall’ultimo rapporto Istat 2013, emerge che il tasso di inattività sardo è pari al 40.3% (in altri termini ci sono 456mila persone , in età lavorativa, con le braccia incrociate). Non solo, con la ripresa dell’emigrazione e la fuga dei cervelli, l’effetto della “pentola bucata” è aggravato dai costi sociali ed economici dell’investimento in capitale umano perso per l’espatrio delle giovani generazioni.

Pertanto è diventato comune guardare a quella stagione mettendone in luce solo gli aspetti più deteriori senza evidenziarne alcuni importanti meriti, come quello di aver determinato un miglioramento basato sul reddito delle condizioni di vita materiali e, parallelamente, di aver così sostenuto una scolarizzazione di massa capace di aumentare la dotazione di capitale intellettuale e relazionale dell’intera regione.

Non solo, dietro la promessa della creazione di nuovi posti di lavoro, continuano ad essere proposti modelli di sviluppo antitetici rispetto alla vocazione dell’isola, come testimoniato di recente dalla vicenda del Qatar e degli stazzi galluresi, dai tentativi della Saras di estrarre metano nel Campidano o della Matrica di impiantare colture di cardo per alimentare la cosiddetta “chimica verde”.

Sebbene la protesta e la nascita di movimenti spontanei dal basso testimonino oggi una sensibilità e un’attenzione diffusa da parte delle popolazioni interessate rimane, in termini più generali, una forte predisposizione verso l’accettazione di questi modelli. Perché?

Il vero dramma
Perché il vero dramma del nostro tempo è non solo nel lascito di quel mondo che oggi ci appare non in grado di garantire continuità tra passato, presente e futuro, quanto nella nostra incapacità di rimuovere tutte quelle barriere che impediscono di valorizzare pienamente il capitale intellettuale e relazionale esistente dei sardi residenti e di quelli che vivono oltremare.

Un capitale alimentante una domanda crescente di partecipazione che però troppo spesso rimane latente, inespressa e che solo in pochi casi riesce a diventare progettualità, fare e agire concreto capace di incidere sulla realtà e sulla nostra capacità di elaborare e condividere modelli di sviluppo sostenibili e rispettosi del territorio, dell’ambiente e delle persone.

A questo proposito, il riflettere sulle barriere che impediscono l’attivazione di questa “riserva” inesplorata di capitale sociale, potrebbe aiutarci a capire quali potrebbero essere oggi i meccanismi di valorizzazione della stessa.

Una prima barriera può essere individuata nella tendenza all’autoreferenzialità delle istituzioni oggi delegate a questa elaborazione. Un ulteriore limite è rappresentato dall’inerzia della politica e dell’amministrazione regionale. Infine, la terza, e probabilmente la più importante barriera, è che la nostra straordinaria capacità di analisi e di interpretazione della realtà non è sostenuta da una piena fiducia nei nostri mezzi. Rimaniamo insicuri, costantemente in attesa che siano gli “altri” a legittimarci.

Il progetto Rumundu
In questo scenario il progetto Rumundu appare non soltanto paradigmatico ma metafora di una Sardegna che non si rassegna ma viaggia, si apre al mondo e da questo mondo vuole riportare un sapere condiviso, che sia globale ma allo stesso tempo locale, in una parola “glocale”.

Nato da un’idea di Stefano Cucca, un trentaquattrenne di Sorso, consulente aziendale di professione e ciclista per passione, il progetto Rumundu consiste in un viaggio in bicicletta intorno al mondo alla ricerca di storie e stili di vita per dare voce a una community fatta di persone, storie, situazioni, micro mondi, momenti e stili di vita sostenibili che non senza difficoltà, si muovono in controtendenza rispetto a un’impostazione della nostra società fortemente legata ai consumi.

Stefano è partito da Sorso la mattina dell’8 giugno 2013, ha attraversato l’intera Sardegna, la Sicilia e adesso sta risalendo lungo la penisola italiana. Attraverserà l’Europa, l’Islanda, il Nord America, l’Asia, l’Oceania per poi, dopo aver raggiunto il Madagascar, spostarsi dal Sudafrica alla volta del Medio Oriente e infine fare rientro a Sorso nel giugno del 2014.

Strada facendo, raccoglierà spunti, consigli, racconti, foto, suoni e sensazioni provenienti dalla rete che verranno veicolati nel sito e nei social network per dare vita alla comunità Rumundu. Alla fine avrà percorso, dopo 365 giorni di viaggio e 9.000.000 di pedalate, 30.000 Km suddivisi in 300 tappe

Al di là dei numeri quello che più colpisce è la straordinaria capacità di questo progetto di popolare il nostro immaginario collettivo di freschezza, energia ed entusiasmo e di indicarci una delle tante vie alternative per superare le barriere che impediscono una piena valorizzazione del nostro capitale intellettuale e relazionale.

Fabrizio Palazzari

 

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