Lavoro / Sardegna

“Imprenditori deboli e incapaci di fare rete. Anche per questo la Sardegna è periferia d’Europa”. Un intervento di Marco Zurru

 

Marco Zurru è un sociologo e insegna all’Università di Cagliari. Questo suo intervento su mercato del lavoro in Sardegna rilancia il dibattito sui problemi che investono la nostra isola, oltre che arricchire di contenuti il blog. E per questa sua generosità lo ringrazio di cuore.

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Sarò di parte perché è una carissima amica, prima che collega… Sarà che condividere lo studio da quasi dieci anni consente di apprezzarne molti lati del carattere e della personalità, tra cui tanti spiccano serietà, intelligenza e grinta… Sarà. Ma, ancora una volta, il Rapporto sul Mercato del lavoro in Sardegna 2012 (Edizioni Cuec, Cagliari 2013), curato da Lilli Pruna, dimostra quanto sia importante dotare il territorio tutto di strumenti di analisi e lettura delle dinamiche socio-economiche, articolati quanto di larga possibilità di lettura per platee più ampie rispetto a quelle composte da specialisti o vicini (e questo è uno dei pregi più importanti di un rapporto socio-economico). E di questo Lilli va calorosamente ringraziata.

Il gruppo di lavoro del Centro Studi Relazioni Industriali dell’Università degli Studi di Cagliari riesce a descrivere, con puntualità, la già discussa, lunga e ininterrotta discesa agli inferi delle diverse figure dell’offerta del mercato del lavoro, occupate/i, disoccupate/i, scoraggiate/i.

Questa volta è il confronto con le 270 regioni europee che continua a confermare quanto siamo diventati periferici in Europa e, senza nessuna mia ambizione di ripercorrere le stanche tracce dell’illusione economicista di qualsiasi auspicata “convergenza”, quanto è profonda la distanza che la Sardegna ha rispetto alle regioni più attrezzate e solide nel proprio sistema economico.

La debolezza del nostro mercato del lavoro sta, scrive Pruna, nella debolezza dell’occupazione, e questa pasta di fragilità ha diverse componenti: lo scarsissimo capitale umano (che non va confuso banalmente con il livello di istruzione raggiunto) della popolazione attiva; la scarsità dei numeri che stanno dietro la categoria “occupati” e l’enormità dei numeri – invero – che sta dietro le categorie “inoccupati e disoccupati”; la radicata e ormai estesissima instabilità e precarietà dell’occupazione, che ha oramai dovuto gettare via la maschera colorata e “indolore” della flessibilità, troppo e male velocemente costruita da una classe politica auto-ingannata dalle sirene di certa neoliberal economy, e troppo e male velocemente acquisita e utilizzata dalle rappresentanze imprenditoriali.

Bisogna sempre ricordare che fu un uomo della sinistra (Tiziano Treu) a introdurre la giostra dei contratti flessibili, nell’illusione – smentita a breve giro da Luciano Gallino – di maggiori possibilità di ingresso nel mercato agevolando le possibilità di uscita. Illusione ancora triste realtà nelle righe della legge Fornero, nei continui richiami e auspici di alcuni rappresentanti di Confindustria e nelle vaste platee di imprenditori che ne leggono solo la possibilità di utilità “a breve termine”.

L’occupazione è debole perché “solo una parte della popolazione adulta ha un lavoro e un reddito (e avrà una pensione), mentre l’altra è costretta a restare senza lavoro e senza reddito e si sostiene attraverso le solidarietà familiari e i trasferimenti pubblici”.

L’occupazione è debole perché esclude giovani e donne e, soprattutto, perché – anche se la stampa non ne parla – in Sardegna il ¾ della disoccupazione è adulta (sopra i 25 anni) e ¼ è giovanile: sono i giovani di ieri, quelli che hanno speso un lunghissimo periodo come disoccupati di lungo periodo, quelli che sono faticosamente riusciti ad entrare nel mercato del lavoro attraverso contatti informali e non passando per quelli formali e istituzionali (e deboli anch’essi) dei Centri per l’impiego, quelli che sono riusciti a strappare con i denti contratti instabili e precari. Insomma, sono queste figure – ormai “adulte a metà” – ad essere quantitativamente (e qualitativamente, visti i diversi livelli di responsabilità personale che l’età comporta) ad essere quelli maggiormente colpiti dalla situazione di forte debolezza così ben discussa dagli autori del rapporto.

Ora, l’Italia non è sempre stato un Paese “debole” e, la Sardegna (checché ne dicano i Shardana’s fiends), non sempre è stata così periferica. Poco prima della crisi economico finanziaria la competitività dello sviluppo italiano è stata garantita principalmente da tre fattori socio culturali: da una diffusissima cultura dell’ autoimprenditorialità, dal vivace attivismo di milioni di piccoli e piccolissimi imprenditori (artigiani o terziari, emersi o sommersi, di nicchia avanzata o di copertura di comparti tradizionali); dalla forza dei localismi produttivi e dei distretti industriali, la cui pasta è stata l’identità, la coesione sociale che questi territori hanno saputo edificare; da una fortissima volontà e capacità di costruire dinamiche di concertazione e coalizione tra le parti (imprese, sindaci, banca locale, associazioni di categoria, camere di commercio, centri servizi).

Su questi elementi si sono basati Bagnasco, Brusco, Beccatini e tanti altri colleghi per descrivere il modello del capitalismo italiano, fatto di piccole imprese in rete tra di loro, un capitalismo territorialmente e socialmente diffuso, un capitalismo che si è espresso nel modello distrettuale, specialmente nel Centro-Nord Italia, ma anche al sud con una distribuzione dei distretti produttivi a macchia di leopardo. Giusto per ricordare: all’interno dei distretti industriali si trova il 25% della popolazione italiana ed il 31% delle municipalità; queste realtà contribuiscono al 46% del totale dell’export nazionale; in essi lavorano il 44% degli occupati nei settori manifatturieri italiani.

Questo modello di sviluppo ha retto – fino a poco tempo fa – le sorti del Paese nel declino della grande impresa, proprio grazie alle piccole e medie realtà produttive, o meglio, grazie a un certo modo di essere piccoli e stare insieme. Nel distretto industriale le imprese hanno imparato a: lavorare in rete, collegando fornitori e clienti di piccola scala, grazie ai legami e alle esperienze comuni; hanno operato in modo competitivo perché hanno trovato il modo di partecipare a reti più grandi, evitando di rimanere isolate. Insomma, è stata l’organizzazione distrettuale, a consentire alle imprese artigiane di raggiungere gli altissimi livelli di specializzazione su determinati segmenti di produzione: ad esempio, una piccola realtà produttiva che lavorava in un distretto ceramico riusciva a specializzarsi fortemente in un prodotto o in un servizio, proprio perché i volumi di produzione su cui poteva contare, erano quelli dell’intero distretto.

Gli imprenditori hanno potuto utilizzare l’ambiente locale come fonte di conoscenza, di lavoro qualificato, di servizi specializzati, di cultura imprenditoriale, di capitale sociale. L’efficienza di un territorio, delle sue infrastrutture, dei suoi servizi, delle sue stesse relazioni sociali (la fiducia tra gli attori, le competenze disponibili a livello locale), nei sistemi distrettuali è diventato un importantissimo fattore di produzione, allo stesso modo che il capitale economico e il lavoro.

Questa forza del territorio era fatta inizialmente di imprenditori “mediocri” (nel senso che le imprese sono nate spesso nei sottoscala, gestite da soggetti che fanno impresa unicamente sulla base di due risorse: le proprie competenze – quasi sempre acquisite in una precedente esperienza di lavoro dipendente – e la propria rete di relazioni familiari); dell’attivismo degli amministratori locali che hanno saputo interpretare le esigenze delle piccole imprese (spazi, reti ed infrastrutture); della banca locale (banca di credito cooperativo, la popolare, la cassa di risparmio, la cassa rurale), che forniva risorse finanziarie alle idee imprenditoriali in termini di anticipazione dei capitali, di sconto fatture, ma costituiva anche un’ importante riferimento identitario per il distretto e gli abitanti del territorio; delle Associazioni di rappresentanza, che si impegnavano ad accompagnare gli imprenditori rispetto alle forme elementari della gestione di impresa, dalla tenuta dei libri contabili fino alla promozione dei network di consorzi; della Camera di Commercio, che si poneva come soggetto organizzatore dell’economia distrettuale, assolvendo a funzioni fondamentali (la mediazione con il sistema della formazione, l’esplorazione dei mercati esteri, l’organizzazione delle fiere, etc.).

Questo sistema, ora in forte difficoltà anche a causa delle dinamiche legate alla crisi economico-finanziaria e all’insipienza di una visione e una politica industriale da parte della classe politica che ci ha finora governato, è stato per molti anni l’assillo di chi cercava di indurre sviluppo in quelle aree del Mezzogiorno del Paese dove, viceversa erano da sempre assenti i fattori territoriali della competitività, come la coesione dell’ambiente sociale, la condivisione di valori legati al fare impresa, la scarsa conflittualità sociale, la diffusa professionalità dei lavoratori, la mobilità sociale, l’attitudine al rischio, l’efficienza delle reti infrastrutturali locali, l’efficienza della logistica (porti, interporti, aeroporti, fiere, ovvero tutti quegli snodi che collegano l’ambito locale alle reti internazionali ormai globalizzate.

Tutte le politiche centrali di sviluppo locale nel Sud (e in Sardegna) da 20 anni a questa parte hanno cercato di indurre il superamento delle ragioni di debolezza della sistema economico cercando di “tornare”- ma senza successo – al modello distrettuale.

Ecco, dunque, dove è rintracciabile l’altra parte della debolezza del sistema economico isolano; ecco le altre ragioni della debolezza della componente dell’occupazione. L’occupazione è debole, l’Offerta del lavoro è debole anche per i motivi così ben raccontati da Pruna, ma lo è perché sono assenti quei fattori di sistema appena evidenziati e, soprattutto, perché debole è la Domanda, deboli sono gli imprenditori.

Un capitalismo diffuso, famigliare e molecolare, che difficilmente riesce a stare al passo con le politiche e i regolamenti, i parametri e i modelli europei; un capitalismo fatto di “nani”, incurante dell’importanza dei processi di innovazione e di internazionalizzazione. Ecco cosa siamo: un sistema economico attivato da imprese nane, visto che il 93% delle nostre realtà produttive (oltre 4 milioni e mezzo) hanno meno di 10 addetti, occupano il 40% degli addetti (oltre 17 milioni) e hanno un fatturato annuale inferiore o pari a 2 milioni di euro. In più (e senza guardare all’enorme buco nero dell’economia sommersa), le imprese senza lavoratori dipendenti in Italia sono 66,3 per cento del totale delle imprese attive.

Se guardiamo al Sud e all’Isola, l’Istat ci racconta come la dimensione delle imprese sia pari a 3 addetti per impresa; la popolazione di imprese delle regioni del Mezzogiorno sia la più instabile, essendo caratterizzata dai valori più alti di natalità e mortalità, quindi del turnover lordo dovuti anche alla maggiore polverizzazione del sistema produttivo meridionale e alla specializzazione relativa nel segmento delle microimprese operanti nei servizi.

In Sardegna si registrano valori del tasso di sopravvivenza a 5 anni inferiori al 50% (quindi meno di un’impresa su due). Usando come indicatore sintetico del successo dell’impresa nel sistema competitivo il rapporto tra valore aggiunto per addetto e costo del lavoro unitario (una sintesi della misura di efficienza dei processi produttivi che fornisce indicazioni sulla competitività in termini di costo), scopriamo che nel 2009 le imprese dell’Ue27 producono mediamente circa 143 euro di valore aggiunto ogni 100 euro di costo del lavoro; l’Italia è poco indietro nelle regioni del Centro (nel 2010 i livelli di competitività più elevati (erano del 134,5 per cento), del Nord-ovest (131,9 per cento) e del Nord-est (122,0 per cento); mentre il Sud arranca con un 109,0 per cento.

“Small is beautiful” è il titolo di uno dei libri di più largo successo di Ernst Schumacher (dove, nel 1973 anticipò temi oramai attualissimi, quali le urgenze ambientali, gli effetti distruttivi dell’industrializzazione sulla salute psico-fisica dell’uomo, la lotta contro l’analfabetismo e la miseria, il pieno rispetto dei diritti umani, la sostenibilità ambientale). Un titolo ripreso (deformandone l’originario significato) poi da molti autori per descrivere il nostro capitalismo, ovvero ciò che è diventato in questi ultimi 30 anni.

Ma, nel caso del Mezzogiorno e della nostra povera Sardegna, essere imprenditori small non è affatto beautiful, quanto piuttosto bad e, soprattutto, bad per ciò che riguarda le conseguenze sulla debolezza (nelle sue diverse declinazioni) di chi il lavoro lo fornisce, il nostro occupato, instabile, precario e poco numeroso e, troppo poco spesso, donna.

Marco Zurru
Dipartimento di Scienze Sociali e delle Istituzioni
Università degli Studi di Cagliari


 

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7 Comments

  1. stefania says:

    il vero problema dei sardi sono almeno tre: il disaccordo tra sardi, l’esterofilia, poca fantasia accompagnata da molta maldicenza e gelosia.

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  6. …ma hanno mai vissuto l’impresa? E soprattutto in questa fase economico-sociale? Bravissimi sociologi, ma la realtà e’ un’altra …. Aiuto!

  7. D’accordo con lo scritto tranne su due aspetti fondamentali, che però fanno la differenza su tutta l’analisi di Zurru. Il primo aspetto riguarda proprio l’interpretazione ideologizzata di Lilli Pruna, cioè si danno le colpe al sedicente neo-liberismo, colpevole, a detta degli autori, della precarizzazione del lavoro sulla base della flessibilità contrattuale introdotta nel corso degli anni. Non si dice però che la richiesta di maggiore flessibilità non è che la risultante delle difficoltà strutturali incontrate dagli imprenditori: eccesso di peso fiscale, burocrazia, ecc. Vi è dunque un problema opposto, che non ha origini liberali ma stataliste, la politica casomai ha creato il problema a posteriori, utilizzando inadeguatamente la flessibilità come risposta a problemi di ben altra natura.
    Il secondo aspetto riguarda il capitale sociale e la capacità di fare sistema, assolutamente improprio il parallelo fra la Sardegna ed altre realtà economiche (come nel centro-nord), in particolare se osserviamo le Autonomie rispetto alle Regioni ordinarie. L’analisi di Zurru infatti non tiene conto delle differenziazioni linguistico-culturali. Proprio questo mese sul tema su Sa Natzione mi è capitato di parlare del D.P.R. 752-76 (cioè le norme di attuazione dello Statuto Altoatesino), il quale ha introdotto la copertura legale dello status di minoranza linguistica (assegnando così alla specificità linguistica un ruolo di primo piano nella gestione dei processi amministrativi, e di conseguenza anche economici).
    Tradotto: In Alto Adige si riesce a fare sistema perché l’impianto economico territoriale è impostato sul valore aggiunto locale ed è gestito prevalentemente da personale locale. Al contrario, la Sardegna, non solo non ha valorizzato il proprio valore aggiunto, ma, a differenza del caso sudtirolese, non ha neppure la capacità di fare sistema dovuta ad una copertura legale (pensiamo al patentino per l’accesso alla pubblica amministrazione) derivante dalla sua specificità linguistica. L’analisi di Zurru è condivisibile, ma se non si identificano tutte le cause dei problemi (che non stanno solo nella scarsa coesione imprenditoriale) non si possono trovare le soluzioni: http://www.sanatzione.eu/2013/06/autonomie-e-d-p-r-n-752-76-la-potenza-economica-della-dogana-linguistica/

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