Politica / Sardegna

Ci scrive Filippo Spanu: “Sardegna senza idee e preda degli slogan. Ma le risorse per affrontare la crisi ci sono”


Filippo Spanu è attualmente il segretario regionale di Confartigianato Sardegna. È stato candidato alle primarie del Partito Democratico nel 2007 (quelle in cui si contrapposero Antonello Cabras e Renato Soru). Questo è il suo contributo al dibattito sulla attuale situazione politica in Sardegna che parte dalla cinque domande poste su questo blog.

***

Caro Vito,

seguo le tue sollecitazioni affinché nasca un vero dibattito sulle prossime elezioni regionali, in particolare sui candidati alla presidenza. Collegate, queste, non casualmente, al dibattito in corso nel mondo del sardismo e della sinistra su nuovi modelli che ci consentano di uscire da una grave crisi. Tra questi si riparla di un nuovo Partito Sardo.

In altri luoghi suonano mielose, spesso superficiali, le musiche di un neo indipendentismo basato su autonomia fiscale e zona franca integrale, possibili panacee di tutti i mali. Un indipendentismo alimentato da governanti che, incapaci di svolgere il proprio compito, rilanciano strumentalmente attraverso i sogni.

Avendo scelto da alcuni anni di tornare a dedicarmi agli interessi delle imprese, vorrei dare un contributo partendo da questo punto di vista.

Quale sequenza logica di risposte offrire alle tue domande?

Intanto, il ritardo con cui le parti politiche stanno affrontando la selezione dei prossimi candidati alla presidenza della Regione è grave, in particolare per il centrosinistra.

Ma più grave è il fatto che ancora oggi manchi totalmente un dibattito compiuto sull’idea di Sardegna che vogliamo perseguire. A destra, a sinistra, e finanche nel mondo sardista ed indipendentista.

E come in passato, la scelta della classe dirigente, sembra determinata da ragioni che quasi mai partono da una visione coerente di Sardegna e da un progetto cui associare un leader funzionale e con qualità conseguenti.

Nel 2004, a dire il vero, si era partiti con il piede giusto (perlomeno nei tempi, nei processi e nei contenuti), ma i fatti dimostrano come, sia il leader di allora, che la sua maggioranza, abbiano sprecato quella occasione.

Partire da una visione coerente, quindi, creandola e facendola diventare programma. Certo non attraverso la speculazione intellettuale di pochi eletti.

Soccorre da questo punto di vista l’idea di Fabrizio Barca, valida per i partiti, per le associazioni di categoria, per le comunità territoriali: c’è bisogno di mobilitare tutte le coscienze e le conoscenze. Quando Barca parla di sperimentalismo democratico parla di una società che si solleva tutta intera; che crea un programma con un’azione fitta e condivisa. E non è vero che ci voglia molto tempo, perché tanto lavoro è già stato svolto: chi si ricorda del metodo di Sardegna Insieme? E del profondo lavoro di idee “dal basso” generato negli anni successivi, avviato ma improvvidamente abbandonato?

È un lavoro che tutti possono e devono fare. Ma devono farlo basandosi su un principio di serietà, comprendendo necessariamente i fenomeni e le scelte regionali all’interno di un contesto nazionale ed internazionale, e selezionando le ipotesi con rigore e non con battute superficiali.

Dire zona franca integrale, ad esempio, risulta solo uno slogan se non si collega l’ipotesi ad un serio lavoro di analisi sulle ricadute. Ci si accorgerà allora che le imprese sono più attirate dalla semplicità amministrativa che dalla sola defiscalizzazione. E che la diminuzione di risorse pubbliche derivanti dal fisco (se togliamo l’Iva ed altre imposizioni)  non determina necessariamente un contemporaneo reinvestimento privato tale da aumentare complessivamente la ricchezza.

E perché non dire che per ricentralizzare la Sardegna nei traffici e negli interessi euromediterranei serve tutto tranne che una flotta sarda, tanto roboante nel nome quanto insignificante e costosa nei fatti.

Insomma, fare sviluppo è una cosa complessa, e progettarlo in un programma elettorale comporta la creazione di una squadra attiva, competente, motivata e coesa, capace di ascoltare ed interpretare quello che la Sardegna ha bisogno di dire. Comporta anche, di questi tempi, l’urgenza di fresche novità per rispondere alla disillusione dei cittadini.

La Sardegna ha una classe dirigente adeguata rispetto al compito? Quella attuale probabilmente no. Ma la Sardegna ha una comunità ampia e ricca, fatta anche di amministratori locali, intellettuali, giovani studenti e professionisti, esperti funzionari e dirigenti della pubblica amministrazione, imprenditori spesso tanto competenti e coraggiosi quanto isolati, militanti dei partiti motivati anche se costantemente strumentalizzati.

Manca una regia che deve essere attivata, e questo è il compito dei partiti e dei politici più accorti, di qualsiasi estrazione essi siano.

Infine. “Il partito che vorrei”, si diceva un tempo.

Il partito che vorrei ha queste caratteristiche. Con una chiara distinzione tra chi governa e chi alimenta le proposte e valuta l’amministrazione. Non importa chiamarlo “sardo” anzi vorrei che fosse, nell’autonomia delle decisioni, il più collegato possibile con l’esterno, con l’Italia, con l’Europa.

Il candidato che vorrei è il frutto di queste riflessioni. Una persona competente, veicolo di innovazione, giovane dentro, e capace di animare, unire, delegare e fare squadra. Poco localistico e poco politico politicante. Una donna? Magari, ma senza togliere tutto il resto.

In Sardegna ci sono alcune persone che hanno queste qualità, ci sono, ne sono convinto.

Facciamo presto.

Filippo Spanu

 

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12 Comments

  1. Adriano De Ambrosis says:

    Cari amici, che nostalgia della Sardegna. Chi vive fuori oramai da qualche anno non può non sentire la nostalgia, dei profumi, del mare, delle beghe dei sardi che restano sempre gli stessi. Non peggio degli altri del resto d’Italia sia chiaro.

    Caro Filippo mi sembra di ricordare tante volte le stesse parole, che sono sempre le stesse. Gli stessi problemi ora, sicuramente aggravati e tanto dalla micidiale crisi economica e sociale che viviamo.

    La mentalità è la stessa quella non cambia. Purtroppo non si modifica. Intendo mentalità dei politici, forse politicanti sarebbe meglio.

    La Sardegna e, insieme alla Politica, quella delle passioni del gusto di fare politica di impegnarsi. E’ solo il gusto di fare ciò che ci piace senza altro interesse dietro che veramente fa vivere. Solo questo alla fine resta.

    Ci vorrebbe molto più amore e passione nella Politica, quella vera quella con la (P) maiuscola come si diceva un tempo. Quella là, che forse non è scomparsa ancora del tutto. Così come non è scomparsa, per fortuna la bellezza antica della Sardegna.

    Ad majora.

    Adriano De Ambrosis

  2. Caro Spanu, invece sta proprio lì l’incredibile paradosso: Un partito “Sardo”, forte della sua identità linguistica e territoriale, rappresenterebbe proprio una Sardegna che si relaziona con l’esterno, un partito “italiano” invece sarebbe solo l’ennesima rappresentazione della subalternità e della marginalizzazione culturale, economica, geografica e politica che l’indifferenza verso il territorio ha fin’ora generato.
    Per il resto d’accordo con lei su deregulation burocratica e avversità ai carrozzoni pubblici, purtroppo anche i sardisti si sono volontariamente accodati nel caso della flotta Sarda al sensazionalismo ricercato da Cappellacci. E gli esiti sono sotto gli occhi di tutti. Quando contestai quelle scelte hanno preferito seguire la moda del momento in cerca di facile consenso. Sono i danni dello statalismo culturale di ritorno, dove si pensa ancora che rendere pubblico qualsiasi tipologia di servizio al cittadino sia la panacea di tutti i mali.

  3. Marcello says:

    Mi chiedo a quali risorse (forse umane, spero) ci si rivolga con tanta positività, forse quelle che scaturiscono da piani operativi che spuntano ad un mese dalla scadenza senza nessuna possibilità di reiterazione e strutturazione profonda con il territorio e i processi formativi delle persone?

    Guardate che il governo centrale oltre che a non averci restituito con gli interessi i miliardi che ci deve, oltre a non permetterci di gestire noi i trasporti transfrontalieri per abbattere le diseconomie che ci rendono incapaci di competere ad armi pari, ha anche chiuso del tutto gli unici strumenti capaci di generare attività produttive e lavoro non legate agli accozzi e ai legami parassitari con l’attuale classe politica e sindacale. Da pochi giorni i fondi per l’autoimprenditorialità e l’autoimpiego a fondo agevolato sono svaniti, finiti. Non si possono più creare attività produttive se non hai qualche strozzino a cui legarti visto che nemmeno le banche erogano più fondi: http://www.invitalia.it/site/ita/home/notizie/articolo8367.html e se lo fanno sappiamo a quale costo. Il silenzio dei media e dei cosiddetti “addetti ai lavori” é agghiacciante.

    La Sardegna non ha nemmeno strumenti complementari perchè fuori dall’obiettivo 1 per il doping dovuto alla Saras non può nemmeno accedere e modulare i fondi strutturali europei come altri territori.

    Rimane l’unica opportunità che é quella di autostrutturazione dal basso e del provare a fare tutto con le proprie gambe, ma con la concorrenza spietata esterna che oltre ai fondi per le start-up innovative ha anche politiche integrate e un clima culturale più favorevole, tutto ciò é molto difficile.

    • Su Cooperadori says:

      Come non darti ragione?
      Forse, però, c’è un’altra carenza ben più grave di quella economica (quella cioè di diminuzione della capacità di acquisto in rapporto al mercato), che sta crescendo nel nostro paese, si tratta della perdita del “capitale sociale”, cioè l’esaurimento delle risorse di fiducia che ognuno di noi dovrebbe avere nei confronti della comunità in cui si trova inserito (a cominciare dalla famiglia per finire nel mondo).
      Il capitale più prezioso che si sta perdendo è la certezza che siamo parte di una rete di cure: quanto diamo agli altri ci verrà restituito (più o meno, senza sottilizzare) quando ne avremo bisogno a nostra volta.
      La vita in società è, da questo punto di vista, una impagabile risorsa.
      Non siamo soli: possiamo appoggiarci fiduciosamente agli altri.
      La rete di sostegno primordiale è la famiglia, comunque venga intesa, oltre a questa sopravvengono le altre forme di solidarietà allargata.
      Come ogni capitale, anche questo è soggetto a vicissitudini: può accrescere, diminuire o fare bancarotta.
      Questo può avvenire anche dopo una serie di esperienze negative, in cui si tende a chiudersi nel proprio privato, immaginando che al di là della porta di casa ci sia solo un mondo ostile, fatto di sofferenza e di sfruttamento dal quale ci si deve difendere.
      La domanda finale che solitamente ci si pone è di tipo funereo: come faccio a infondere fiducia nel futuro e nella comunità solidale se io non ne ho più?
      Ecco, appunto: quando il capitale sociale è esaurito, non sappiamo più come riavviare il processo di reciprocità che tiene in piedi la società.
      E’ di questo impoverimento che dovremmo soprattutto preoccuparci, non tanto (o non solo) di quello economico.
      Una comunità che non fa nulla per contrastare questa emorragia di fiducia si carica di una grave responsabilità.

      • Marcello says:

        Fortunatamente gli studi sullo sviluppo della responsabilità sociale dell’impresa mostrano come vi sia una immensa richiesta latente di modifiche allo status quo dominato da un capitalismo finanziario e il deteriorarsi dei rapporti comunitari e societari dovuti anche ad esso e come da te così ben descritti. Modifiche al sistema sociale e comunitario – è bene ricordarlo – volutamente apportate anche dallo Stato centrale che trovava nei legami comunitari e nei beni comuni che la Sardegna era riuscita a preservare anche con le leggi de su Cumonale, nonostante le leggi sulle chiudende. Legami e beni considerati valori da abbattere, nonostante proprio grazie ad essi si cercasse il relazionarsi di attività e diritti apparentemente in contrasto fra loro, temi sempre attuali. Dico questo perchè, secondo me, sarà grazie ad una classe dirigente onesta, capace di reintempretarsi rispetto a questi cambiamenti e queste richieste e nella capacità di rigenerare i legami economici e comunitari che si potrà cambiare il percorso verso il precipizio alla quale sembriamo indirizzati dalle analisi tecniche (poco conosciute) ed economiche. Io spero sia una classe dirigente indipendentista generosa e una società sarda che finalmente può parlarsi e riscoprirsi a fare questo, ma sento che siamo ancora lontani. Per adesso mi preoccupo di costruire piccole reti dal basso e provare a cambiare le cose in questo modo. Ciao ingegnè

  4. Su cooperadori says:

    Chi si appassiona ad alti ideali di riscatto e rinascita è disposto a sopportare e condividere fatica, privazioni e impegno nel processo che porta alla loro realizzazione.
    Un processo che alla fine conduce al successo ed alla individuazione di una squadra e di un leader, cui affidare il compito di rappresentare quegli ideali condivisi.
    So tuttavia, perché lo sperimentato di persona, quanto sia amara e sconfortante la profonda delusione che si prova nel vedere lo stesso leader venire meno alla missione affidata.
    La cosa più grave è che, l’infatuazione generata dalla posizione di potere raggiunta, porta a compiere proprio quegli atti che a suo tempo erano stati oggetto dell’analisi critica e che lui stesso aveva condiviso.
    Ecco il leader, allora, portare avanti un suo personalistico progetto, secondo una mira individualistica, senza più confronto con alcuno, solo con il proprio ego e con le persone che questo ego titillano.
    Probabilmente questa mia esperienza è lontana da quanto accaduto con “Progetto Sardegna”, non posso giudicare, anche perchè non ho preso parte al progetto “Sardegna Insieme”, sono stato ipercritico fin dall’inizio, avendolo sottovalutato nella sua organicità: mi sembrava eccessivamente articolato e per questo troppo complesso da realizzare in un breve periodo.
    Ed io ritenevo che sarebbe stato opportuno un processo di rilancio più rapido, lo ammetto è stato un errore.
    La lettera di Filippo, invece, mi ha consentito di rileggere il progetto ma mi ha permesso, alla luce dei fatti accaduti, quanto sia da apprezzare e condividere nella sua attualità.
    Io sinceramente avrei abbandonato ogni cosa per dedicarmi ad altro.

  5. Filippo Spanu è stato per tre anni capo di gabinetto di pigliaru con responsabilità di coordinamento, assieme all’allora direttore del centro di programmazione, della programmazione negoziata. Mi spiega, per favore, cosa è venuto fuori da quell’esperienza? Anticipo la risposta: nulla.

    • filippo spanu says:

      Caro Dino, in poco più di due anni nei quali ho avuto l’onore di offrire il mio contributo in regione, abbiamo fatto 4 cose che apparivano pre condizioni fondamentali per rilanciare lo sviluppo della Sardegna:

      1)Risanamento del Bilancio,
      2) Recupero delle risorse a noi dovute dallo Stato (vertenza entrate), e trattativa su adeguate risorse europee
      3) Progettazione dello sviluppo tramite un profondo e diffuso lavoro territoriale “dal basso”
      4) attivazione di interventi innovativi per la formazione (Master and Back) e per le imprese

      Questo per dire le principali. Sono poche? Sono molte? Non so. So solo che abbiamo sempre cercato (a volte non nel modo migliore) di mettere al centro la serietà, il merito, la trasparenza ed il coinvolgimento di tutti.

      Poi questo lavoro si è interrotto per motivi a tutti noti e che riguardano anche il modo di concepire la politica. Non credo che modificarlo sia stato un bene

      Io sono sempre per una politica non centralista e fortemente coinvolgente nei confronti di persone e territori. Una politica basata sulle squadre e non solo sui capitani.

      C’è ancora spazio per questo? credo di si. Ecco perchè ho aperto bocca

      Un cordiale saluto.

  6. Magnifico. Condivisibile proprio da tutti! E proprio qui sta il problema…
    O Spanu, t’apu a crei candu mi naras ca ses prontu a ndi pigai cussus 10 millionis arregalaus a su “Ente Lirico” po callonizai is Sardus, e a ddus spendi po imparai su sardu e s’italianu (standard) a is piciocheddus sardus e po ddus fai studiai sa curtura e sa storia de sa Sardinnia. Ni-mancu tui naras nudda de sa “dispersione scolastica” e de sa disocupatzioni prus artas de su stadu italianu. De aundi ndi benint?
    E le servitù militari–soprattutto Quirra–perché devono essere imposte alla Sardegna e non, per esempio, alla Lombardia?
    E la continuità territoriale? Perché i costi dell’appartenza della Sardegna allo stato italiano devono ricadere sui Sardi e non sullo stato?
    E i 10 miliardi che l’Italia ci deve?
    “Non importa chiamarlo sardo”? Infatti la tua proposta di sardo non ha praticamente niente.
    Non accenni a nemmeno uno dei motivi di conflitto tra Sardegna e stato italiano.
    Perché?

    • Riccardo76 says:

      L’analisi di Spanu, articolata e argomentata senza strilli e senza presunzioni, condivisibile o meno che sia, non merita il tuo commento “accusatorio”. Ogni volta che qualcuno esprime concetti che non collimano coi tuoi iniziano le tue stucchevoli reprimende, come se gli altri fossero tutti tonti che non capiscono nulla, mentre le tue idee sono il “Verbo” e guai a contestarle. Spanu ha provato a dare risposte, tu fai solo domande.Sarebbe interessante sapere concretamente cosa proponi tu, realisticamente, per risolvere i problemi, senza fare però retorica vetero sardo-indipendentista. Grazie.

      • Vetero indipendentista io? Ascu’, bai e informa-ti!
        E per di più le mie sono tutte domande retoriche. Devo spiegarti anche cosa sono le domande retoriche? Vabbe´± sono affermazioni travestite da domande.

  7. MammaTigre says:

    Tutto condivisibile. Ma la stanchezza dettata dalle difficoltà in cui sempre più famiglie, i lavoratori, gli imprenditori, i giovani sardi si trovano, porta a chiedersi se a questo punto esista ancora qualche candidato che non sia demotivato a priori o che non persegua fini personali – o di un ristretto gruppo di soggetti -…
    Perché è vero che ci sono quelle persone “tanto competenti quanto isolate”, è verissimo, ma se anche arrivano a spendersi in politica il sistema le cambia, o si lasciano cambiare o si arrendono perché schiacciati dai poteri individualisti.

    Allora, per me, semplice ma attiva cittadina/elettrice, che ha voglia di investire il proprio voto individuale per la collettività, cosa si prospetta davanti a quella scheda all’interno della cabina elettorale? E’ vero che se ci focalizziamo sui problemi tralasciando le possibili iniziative rischiamo l’appiattimento, se non peggio. E un piede nella fossa già ce l’abbiamo, basta guardare la classe politica che ci rappresenta per vedere a che punto siamo ridotti. Però questa classe politica è stata voluta e ci sono evidentemente delle ragioni. Mi vengono in mente gli artigiani, per esempio: tanti di loro questa volta hanno votato M5s perchè si sono sentiti presi in giro dalle promesse del “tutto e subito” del PdL alle elezioni precedenti. Voto di protesta? Sfiducia nella sinistra? Poca lungimiranza? Boh, ma tant’è.

    Niente vittimismo però.
    E’ arrivato il momento, cerchiamo di coglierlo. Allora penso alle parole di Einstein, da tanti citate, usate ed abusate:

    “Non possiamo pretendere che le cose cambino, se continuiamo a fare le stesse cose. La crisi è la più grande benedizione per le persone e le nazioni, perché la crisi porta progressi. La creatività nasce dall’angoscia come il giorno nasce dalla notte oscura. E’ nella crisi che sorge l’inventiva, le scoperte e le grandi strategie. Chi supera la crisi supera sé stesso senza essere ‘superato’.
    Chi attribuisce alla crisi i suoi fallimenti e difficoltà, violenta il suo stesso talento e dà più valore ai problemi che alle soluzioni. La vera crisi, è la crisi dell’incompetenza. L’inconveniente delle persone e delle nazioni è la pigrizia nel cercare soluzioni e vie di uscita. Senza crisi non ci sono sfide, senza sfide la vita è una routine, una lenta agonia. Senza crisi non c’è merito. E’ nella crisi che emerge il meglio di ognuno, perché senza crisi tutti i venti sono solo lievi brezze. Parlare di crisi significa incrementarla, e tacere nella crisi è esaltare il conformismo. Invece, lavoriamo duro. Finiamola una volta per tutte con l’unica crisi pericolosa, che è la tragedia di non voler lottare per superarla”.

    Quindi, facciamo presto. Grazie

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