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Sa die de sa Sardigna, ecco le cinque domande che chiedono una risposta. Oggi e sabato 27 al Palazzo Viceregio

Vi ricordate di Sa die de sa Sardigna? La festa nazionale del popolo sardo è sempre lì, che ci attende ogni 28 aprile. La data prescelta fu da subito contestata da alcuni intellettuali con argomentazioni storiche e politiche, ma in realtà a non piacere era proprio l’idea che, per legge, venisse istituita una festa “nazionale” e per giunta del “popolo sardo”. Scandalo.

Quest’anno le celebrazioni organizzate dalla Regione sono state ridotte ai minimi termini. È per questo motivo che con Salvatore Cubeddu della Fondazione Sardinia, dopo aver organizzato le chiacchierate in sardo nel quartiere della Marina, ci siamo detti: “Perché non facciamo qualcosa?”.

E così siete tutti invitati sabato 27 aprile, a partire dalle 10, al Palazzo Viceregio di Cagliari per l’iniziativa “Sas chimbe preguntas de su 2013, a nois – Le cinque domande del 2013, a noi stessi”.

Perché le cinque domande? Perché nel 1793 i rappresentanti del popolo sardo inviarono alla corona dei Savoia cinque domande con le quali chiedevano un maggiore protagonismo delle élite isolane e una maggiore autonomia alla Sardegna. Ma le rivendicazioni furono rigettate, diventando così il motivo scatenante che portò alla ribellione del 1794.

Oggi non c’è nessun re al cui rivolgere alcuna domanda, ma ci siamo noi, noi sardi, che dobbiamo interrogarci su alcune questioni di importanza fondamentale per il nostro futuro. E lo faremo proprio in quel Palazzo Viceregio dove tutto, 219 anni fa, ebbe inizio.

– La Sardegna ha una classe dirigente e politica all’altezza della crisi che sta vivendo?

– L’Italia serve alla Sardegna? In che misura il superamento della crisi passa da un deciso cambio dei rapporti istituzionali tra la Sardegna e lo Stato italiano?

– Un “Partito della Sardegna”, slegato dalle grandi formazioni nazionali, può essere una risposta alla crisi istituzionale e alla mancanza di una adeguata rappresentanza sia nel parlamento romano che in quello europeo?

– L’introduzione del bilinguismo può essere una risorsa per la Sardegna?

– Quale proposta fare ai giovani sardi che hanno ripreso ad emigrare?

L’incontro non ha una scaletta precostituita. Dopo i saluti della presidente della Provincia Angela Quaquero e del presidente del Consiglio provinciale Roberto Pili, ci saranno gli interventi introduttivi (proposti da Salvatore Cubeddu, Nicolò Migheli, Vito Biolchini, Paola Alcioni e Fabrizio Palazzari) che illustreranno il senso di ciascuna delle cinque domande.

Dopodiché il dibattito, coordinato dal giornalista Piersandro Pillonca, sarà aperto a chiunque vorrà partecipare e che avrà a disposizione cinque minuti per portare il suo contributo alla discussione. Sarà una sorta di assemblea, chi vorrà intervenire potrà farlo, non ci sono interventi già previsti, in tanti sono stati invitati a prendere la parola e ad ascoltare. Con uno spirito costruttivo e non di contrapposizione, perché in ogni giorno di festa che si rispetti bisogna trovare i punti di contatto e non di divisione anche fra chi generalmente è portatore di visioni e interessi diversi.

Le relazioni introduttive verranno pubblicate già dai prossimi giorni, oltre che su questo blog, anche su i siti della Fondazione Sardinia e aladinpensiero.it.

Insieme a questo blog e alla Fondazione Sardinia, promuovono l’iniziativa le associazioni Tramas de Amistade e Riprendiamoci la Sardegna. Di sicuro molti interverranno in sardo, perché ormai dobbiamo abituarci a praticare il bilinguismo anche in occasioni come questa.

A voi ora non resta che far girare la notizia (abbiamo creato anche un evento su Facebook) e rispondere a ciascuna delle cinque domande che vi abbiamo proposto (e anche chi dice che le domande sono stupide, sbagliate, fuori luogo, non è esentato dal dare una risposta).

 

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10 Comments

  1. Pingback: Ci scrive Filippo Spanu: “Sardegna senza idee e preda degli slogan. Ma le risorse per affrontare la crisi ci sono” - vitobiolchini

  2. Pingback: Sa die de sa Sardinnia kentza de limba? | Bolognesu: in sardu

  3. pensu ca siat de importu de chistionai de cussas cosas, imbecis de tenni is manus in is busacas… s’unica cosa ca no mi praxit est chi s’atobiu si fait in Casteddu e tenit su titulu scritu in logudoresu… est cumenti fai unu cumbenniu in Barcellona, ponendi su titulu in Galitzianu. Poita? Poita no ais tzerriau sa cosa: “Is cincu preguntas a nosaterus”? buona fortuna e tantissimi saluti a Fabrizio Palazzari, il presidente del circolo sardo di berlino, prima che lo diventassi io. a si biri, Alexandra

  4. simbad says:

    Alla prima domanda la risposta è no, le classi dirigenti , a partire dall’Europa sono inadeguate a rispondere efficacemente alla crisi economica e finanziaria ,o meglio la loro risposta dimentica e relega alla miseria interi popoli, e classi sociali .
    In Italia il centrodestra ha cominciato a parlare di crisi solo dopo le dimissioni di Berlusconi, prima i ristoranti erano pieni e le agenzie di viaggi registravano il tutto esaurito,peccato che i ristoranti fossero quelli della Caritas e gli aerei erano pieni di giovani laureati in cerca di un futuro.
    L’insipienza del centrosinistra l’abbiamo sotto gli occhi questi giorni.
    In Sardegna abbiamo prodotto parecchi leader politici nazionali e locali ma non una idea forte capace di mobilitare e convincere al di là di un risultato elettorale .
    Rapporti con l’Italia : non scherziamo , credo che i maggiori introiti per l’isola siano costituiti dalle pensioni, piuttosto, nel quadro dell’abbattimento dei costi della politica si và facendo strada la presunta necessità di rivedere le specialità regionali.
    La questione del partito: distrutti i partiti tradizionali, contraddistinti da una forte koiné ideologica e di valori, con una “burocrazia” e gerarchia, ci siamo abituati a partiti d’opinione,
    strutturati in periferia con potentati locali, sempre più personalizzati e deideologizzati,poi
    a comitati elettorali che i leader utilizzano come un autobus per le proprie carriere.
    L’ultima esperienza è il partito via web, la scelta dello strumento più adatto è conseguente all’uso, come per tutti gli attrezzi.
    Se riteniamo di dover trasformare a fondo una società, e non inseguire velleità populiste
    il cammino è lungo e solo una versione attualizzata del vecchio partito di massa è utile,
    a questo proposito consiglio la lettura del manifesto di Fabrizio Barca.
    La lingua e il bilinguismo: personalmente sono favorevole alla tutela e all’uso della lingua sarda, tuttavia credo che il nostro orgoglio di sentirci sardi, il sentirci diversi, siano più il frutto del nostro isolamento che espressione di un confronto con altre culture.
    Poi dobbiamo fare i conti con i moderni media e con la lezione pasoliniana ,oggi un telefilm americano e il più potente vettore di una visione del mondo e di valori che io conosca.
    Proposta ai giovani : nessuna proposta, dobbiamo creare le condizioni per un loro ritorno
    e non come pensionati .

  5. Giagu Ledda says:

    Sa Sardigna tenet a seguru pessones adecuadas a si cunfrontare cun sa situatzione de crisi globale. Tocat a las ischire isseberare. In custos ùrtimos annos s’ùnicu progetu cun visione de imbeniente est istadu “Progetto Sardegna”.
    No isco cantu s’Italia podat serbire a sa Sardigna; penso chi nos devimus bìdere integrados prus in una visione europea.
    In cantu a “Partidu de sa Sardigna”: diat èssere disigiàbile chi totu sos partidos in Sardigna siant sardos, natzionales sardos. Si rispondent a sas tzentrales romanas, non sunt partidos sardos, ma sucursales de interessos furisteris. Custu balet pro ogni idea polìtica.
    A propòsitu de bilinguismu: no esistint istados bilingue o plurilingue, ma pessones bi o plurilingue. S’istadu devet reconnòschere s’ufitzialidade in unu determinadu territòriu suo de un’àtera o àteras limbas, las devet amparare e las devet pònnere in sa matessi cunditzione de sa limba egèmone, chi cheret nàrrere in antis de totu s’intrada in iscola e s’insegnamentu obligatòriu. Su sardu devet intrare in scola, como. Sos deretos linguìsticos non los tenet sa pessone, ma su logu in ue sa limba est nàschida. Sas pessones tenent su dovere de connòschere sa limba de su logu.
    A sos giòvanos sardos obligados a emigrare lis dia chèrrere nàrrere: indignade·bos.

  6. Riccardo76 says:

    1) No. Ma non solo in questo drammatico frangente per l’Isola, ma anche nel passato recente e remoto. Sono davvero pochi i nomi degni di nota, alcuni dei quali già passati alla Storia. Il dubbio più che fondato è che manchi la materia prima con la quale plasmare una classe Dirigente. In Sardegna esiste più che altro una classe Delegante (scegliete un periodo storico e la Capitale di riferimento e il giuoco è fatto).
    2) Si. Nel bene e nel male. Da quando la Sardegna è tornata nell’area Italiana nel 1720 col passaggio ai Savoia ci sono stati notevoli miglioramenti rispetto ai secoli precedenti. E’ stato un percorso lungo ma inesorabile. L’Unità d’Italia ha completato il percorso, il passaggio alla Repubblica ha definitivamente sugellato il senso di apparteneza dei Sardi a un idem sentire. Far parte dell’Italia, seppur al prezzo di una progressiva perdita di “sardità”, ha portato nell’isola Istruzione, Infrastrutture, Servizi, Progresso, Cultura europea e una certa apertura verso l’esterno. Certamente non mancano i lati negativi, ma credo che tra il dare-avere, la Sardegna ci abbia guadagnato.
    3 )No. E la spiegazione sta quasi tutta nella mia risposta al punto 1. Non è aggiungendo la dicitura “Sardo” o ” di Sardegna” che automaticamente si crea qualcosa di valido. L’eterno vizio dei Sardi alla divisione interna poi non darebbe lunga vita alla ipotetica nuova formazione politica, la cui efficacia è tutta da dimostrare.
    4) Si. Ma non una soluzione ai mali endemici dell’Isola. Il bilinguismo può essere un valore aggiunto per rafforzare una identità ma di per sè non risolve i problemi di tipo economico-sociale. Occorre inoltre prudenza e competenza altrimenti si trasforma una opportunità in “macchietta”. Ritengo che la scelta ultima spetti alle persone, e che iniziare con imposizioni sull’uso del Sardo sia un pessimo inizio.
    5) Per il momento la proposta più efficace è quella di restare nei Paesi che li hanno accolti e sfruttare al meglio le opportunità che l’estero consente loro…Qua c’è molto da fare prima di tornare, il processo è lungo e laborioso.

  7. Ignazio says:

    1)NO,is arrisultaus de is trassas de custa genti si biint beni. 2)NO,150 annus de istoria comune ddu mostrant.3)EJA e NO,dipendit de chini e de ita est fatu custu partidu.Certu deu no dd’apu a votai,perou,po unu indipendentista diat a essi mellus a tenni a su costau,in sa regioni unu chi cumbatit po sa terra nostra(fintzas chi est autonomista) rispetu a tzeracus italiotas che Lai ,Cappellacci etc. etc.4)EJA,serbit a s’autostima nostra cumenti populu e is pipius bilingue funt prus abistus 5)BOH,chi no cambiant is cosas c’est pagu de ddi narai. Deu puru seu disterrau

  8. Sempre cinque! Cinque domande fatidiche, con poche varianti, non hanno mai trovato risposte ne a Madrid ne a Torino e meno che meno a Roma. Un tempo le domande le poneva la borghesia e la nobiltà, oggi spetta ai sardi non solo porre le domande ma soprattutto dare le risposte. Temo ci sia però una criticità in quanto per fare le domande i sardi sanno davvero essere uniti ma le risposte spero che adesso non le chiedano più agli altri (nda Italia). E’ vero che il 28 aprile 1794 non fu un grande giorno ma i posteri non si sono distinti facendo di meglio, anzi e tandu “Bona Die de sa Sardigna a totugantus”

    • Noi abbiamo fatto le domande, tu non hai dato le risposte. Buona Sa Die anche a te.

      • E risposta sia!
        1. Paradossalmente la Sardegna, dalla nascita del Regno di Sardegna , non ha avuto una classe politica adeguata a quelle che erano le esigenze contingenti. Le varie classi politiche hanno avuto un unico profilo, quello di difendere il potere rivendicando un riconoscimento di fedeltà. Riconoscimento sempre manifestato a parole e mai poi realizzato nei fatti. Per fare un esempio: il sig. Enrico Letta ha contatti con la Sardegna, questo basta per pensare che avrà un occhio di riguardo nei confronti della Sardegna; ma il sig. Letta è starbico come tutti i governanti italiani, vede solo dall’altra parte.
        2. Si l’Italia serve alla Sardegna, nella stessa misura che le serve la Francia, l’Algeria, il Marocco, il Regno Unito e tutti gli altri stati del mondo. Con la globalizzazione gli stati sono tutti interdipendenti, ma bisogna partecipare in modo autogeno. Ecco allora che la “Glocalizzazione” ci offre la possibilità di portare nel mondo quanto siamo capaci di progettare, produrre, elaborare attraverso le nostre conoscenze, la nostra cultura, la nostra umanità.
        3. Serve sicuro ma solo se sarà capace di vedere oltre gli steccati che si stanno continuamente elevando esaltando un nazionalismo ormai fuori tempo ma sia in grado di aprirsi ad istanze comuni foriere di dialogo e di condivisione. Queste istanze mi pare che non manchino ma c’è in molti la debolezza di sminuirle per debolezza nella capacità di elaborazione e forse anche di sostegno
        4. Non siamo ancora indipendenti per cui il bilinguismo può essere una risorsa che non va sottaciuta. Il riconoscimento di minoranza linguistica , per esempio, ci consentirebbe di avere un certo numero adeguato di parlamentari europei in un unico collegio elettorale Sardegna che se ben sfruttati, seppure ne dubiti in quanto continuano a rispondere a chi gli ha candidati piuttosto che a chi gli eletti, porterebbe la Sardegna al centro degli interessi europei e dunque al centro dei suoi progetti per i contatti almeno nell’area mediterranea e del nord-Africa
        5. L’emigrazione è un dramma quando è frutto di costrizione e necessità di sopravvivenza ma se vissuta come scelta può diventare un’opportunità di crescita professionale, tecnica e di cultura di alcuni lavori indispensabili nella società moderna, che non sarà utile solo per chi la vive ma come opportunità per tutta la Sardegna futura. L’industria primaria in Sardegna ha creato eccezionali professionalità ma che con la crisi industriale non era sfruttabile in termini artigianali o di piccola industria che invece, in una cosciente riconversione, avrebbe offerto opportunità eccezionali

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