Politica / Sardegna

Articolo 18 o imprenditori ladri? Qualcuno racconti ai vari Marchionne, Marcegaglia e Fornero lo scandalo di Ottana, Sardegna

Ai vari Marchionne, Marcegaglia, Fornero, a tutti quelli che “l’articolo 18 frena lo sviluppo del paese” bisognerebbe raccontare la storia di Ottana. Agli italiani il nome di questo paese in provincia di Nuoro non dice nulla, ai sardi invece racconta tante cose.

Immaginatevi un piccolo villaggio del centro Sardegna che a metà degli anni ’60 si trasforma fino a diventare un polo chimico industriale di livello europeo. Nella piana di Ottana si innalzano possenti le ciminiere, laddove da secoli pascolavano solo le pecore. Non solo Ottana, ma anche Porto Torres, Macchiareddu, Villacidro, Portovesme: l’isola in pochi anni fa un salto prodigioso e diventa un laboratorio dello sviluppo industriale italiano. Poi è chiaro che tutto va a finire male, malissimo. L’industrializzazione è (per dirla con il titolo di un libro dell’economista Giulio Sapelli che verrà presentato martedì a Cagliari) “Un’occasione mancata”.

Agli inizi degli anni ’90 nessuno si fa più illusioni, la politica delle partecipazioni statali ha già mostrato tutti i suoi limiti. Però ci sono gli operai, ci sono le fabbriche: che si fa?

Nasce così l’idea del “Contratto d’area”. In pratica, una valanga di soldi pubblici alle imprese che decidono di aprire ad Ottana, ma anche in altre aree dell’isola interessate dal fenomeno della deindustrializzazione. Il risultato? Una truffa colossale.

Leggetevi questo articolo pubblicato da La Nuova Sardegna dal titolo “Ottana, così funzionava la frode milionaria”.

Leggetevi le dichiarazioni dei vertici della Guardia di Finanza, che già nel 2010 denunciavano: «Su 100 milioni di euro controllati, 79 sono risultati indebitamente percepiti e revocati». Avete capito? Ve lo riscrivo: «Su 100 milioni di euro controllati, 79 sono risultati indebitamente percepiti e revocati».

Leggetevi i risultati dei recentissimi controlli, effettuati sempre dalle Fiamme Gialle, secondo cui «tutte le venti aziende controllate negli ultimi anni sono risultate irregolari, per un danno erariale di quasi 100 milioni di euro».

Ad Ottana l’accordo di programma è fallito. E La Nuova Sardegna lo spiega bene.

“I lavoratori ufficialmente occupati sono 300. Eppure, quello strumento della cosiddetta programmazione negoziata, firmato a Roma il 15 maggio 1998 su richiesta dei sindacati e degli imprenditori del centro Sardegna, sembrava la panacea di tutti i mali della grande industria morente: 29 nuove aziende, 170 milioni di euro di contributi pubblici, 1.362 posti di lavoro promessi da sommare ai primi 178 delle sei aziende già attivate”.

Il risultato?

“Delle 29 aziende finanziate con il cosiddetto primo (e ultimo) protocollo aggiuntivo, in attività sono soltanto undici, tredici quelle revocate e cinque quelle «disperse» che non hanno mai messo piede nella Sardegna centrale”.

Ad Ottana come nel Sulcis Iglesiente, lo Stato ha regalato una quantità spropositata di denaro ad imprenditori (quasi sempre “continentali”) che hanno incassato i finanziamenti senza creare un solo posto di lavoro. Neanche uno.

Imprenditori disonesti.

E allora cari Marchionne, Marcegaglia e Fornero, cosa frena lo sviluppo dell’Italia?

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42 Comments

  1. Michele Piras - Coordinatore regionale SEL says:

    Caro Vito,
    ho letto anche io l’articolo della “Nuova Sardegna” e mi sento di dire innanzitutto che – finalmente – uno squarcio è stato aperto, nel silenzio connivente che in questi anni ha segnato la vicenda del Contratto d’area di Ottana.
    Un silenzio composto – con ogni probabilità – da un incrocio di questioni, alcune addirittura comprensibili, altre certamente meno, altre ancora da consegnare alla Magistratura affinché finalmente faccia ciò che deve e ciò che è giusto: per le popolazioni di quello spicchio martoriato di Sardegna e per tutti i sardi.
    Chi proviene da quella zona già da tempo sapeva. Qualcuno ha anche provato prima a suonare il campanello d’allarme, poi a denunciare. L’ascolto – a conferma della variegata gamma delle connivenze – è stato pressoché nullo: da parte delle istituzioni democratiche quanto delle organizzazioni politiche e sociali, prevalentemente preoccupate di no far “esplodere la bomba”, vuoi per paura di perdere i finanziamenti (quindi la possibilità stessa di sperare in nuova occupazione), vuoi per paura di certificare il fallimento di una intera classe dirigente del territorio.
    Grida certo vendetta lo spreco di risorse pubbliche e – nel caso specifico – credo che c’entri ben poco il modello industriale imposto decenni fa. Su questo terreno ormai si potrebbe sviluppare prevalentemente un ciclo di convegni, certo interessanti, ma insufficienti a comprendere lo specifico di quanto accaduto dalla fine degli anni ’90 a oggi nella Sardegna centrale, quando persino si rischiava di ottenere un contratto a tempo indeterminato, collettivo e nazionale di lavoro, per poi restare anni in attesa della “chiamata” e senza neppure sapere a chi indirizzare la propria lettera di dimissioni.
    Da cittadino originario di quel territorio spero che la Magistratura venga presto investita del caso Ottana e che ci dica, per quanto doloroso potrà essere, tutto.

  2. Neo Anderthal says:

    …fanno quello che gli pare….

  3. Efisio Loni says:

    Quando leggo interventi come quello di Soviet e di Ainis mi prostro a un sentimento di rabbia incontrollata. E’ tutta colpa di noi sardi, no? Siamo banditi, del resto, e anche degli etnocentrici incontrollati. Io mi metterei il problema dell’umiltà al posto vostro. Tante parole per nulla: siete assolutamente il prodotto dei guasti di questa società. Il vostro ragionamento è in linea con il peggioe industrialismo e colonialismo. Poveri noi. Auguri, anzi no: cordialmente 🙂

    • Gentile Efisio Loni,

      guardi, ha assolutamente ragione lei. I sardi sono delle povere vittime inconsapevoli e la colpa è tutta dei piemontesi… no, dei milanesi… no, dei romani… no, dei pisani… no, dei fenici… insomma non so di chi sia la colpa ma di certo non è nostra!
      Anzi, a dirla tutta, noi neppure c’eravamo!

      Cordialmente,

  4. prosepetrose says:

    L’art. 18 va inserito nella Costituzione.

    E lo stesso per la procedura del CCNL che tutela i lavoratori al di là della singola fabbrica o piccola impresa, questo è l’obbiettivo di chi vuole scardinarli. Per aspetti migliorativi c’è la contrattazione integrativa. E’, Congiu, un sistema ben studiato, e oliato, per concentrare le forze a livello nazionale (e speriamo davvero ben oltre un giorno, viste le condizioni di lavoro disumane e incivili di molte nazioni anche sviluppate) e dare spazio poi ai vari gruppi di lavoratori di concertare su questa base stabilita a livello generale.

    Diciamo anche che per una semplificazione delle normative, e direi anche una smobilitazione burocratica – a parte partire dall’abolizione delle forme di lavoro precario e combattere contro le varie forme di lavoro dipendente atipico come le “partite IVA” (stabilendo i contraenti delle fatture emesse e quindi se si tratta di un lavoro effettivamente dipendente e non di prestazioni professionali), ma anche altre, diciamo, varie ed eventuali, a parte che per la flessibilità ci sono e sono più che sufficienti i contratti a tempo determinato come già regolamentati e il lavoro interinale – ebbene,sulla semplificazione delle normative ecc, entrerei piuttosto nel merito. Perchè se significa abolizione o svuotamento dell’art. 18, hai voglia a scivolare a condizioni di lavoro meno che ottocentesche.

  5. Gianluca Floris says:

    Caro Vito,
    il fatto che l’imprenditoria da noi in Italia (non certo solo in Sardegna) abbia sempre e praticamente solo agito con i denari pubblici, ha fatto sì che non esista in Italia una vera classe di imprenditori. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti noi.
    I disastri di una industria di stato forzatamente imposta a una Sardegna che di vocazione industriale non ne aveva mai avuto, ha portato all’odierno disastro senza rimedio.

    L’avevo già detto con questo mio post:
    http://florissensei.wordpress.com/2012/01/09/chiude-lalcoa-e-penso-a-quel-rompicoglioni-di-cicito-masala/

    E tu Vito mi avevi risposto con ampie argomentazioni con questo tuo:
    http://vitobiolchini.wordpress.com/2012/01/14/lo-psicodramma-alcoa-francesco-masala-il-piano-di-rinascita-e-il-mito-del-nuovo-modello-di-sviluppo-per-la-sardegna/

    Ora con questo post sul quale sto commentando tu ti avvicini un po’ alla mia posizione, alla fine.

    L’industrializzazione della Sardegna è stata (tutta, non solo Ottana) una truffa per i sardi. Non aveva basi commerciali o giustificazioni economiche sin dalla sua nascita, ma serviva ai vari padroni del vapore ed anche al movimento sindacale che si rafforzava col crescere numerico degli operai impegnati nel comparto. Tutte e due le parti ci hanno inzuppato il biscotto.

    Lo ribadisco qui: stravolgere la cultura sarda, come strillava Cicito Masala, è stato il vero delitto. Con l’assenza poi di un tessuto imprenditoriale vero, a quelle macerie causate dall’industrializzazione “statale” non siamo riusciti a sostituire, con una alternativa manageriale seria, un progetto credibile che rendesse possibile la salvezza del comparto e quindi dei posti di lavoro oramai irrimediabilmente perduti.

    Una lotta che andrebbe davvero fatta, a mio avviso, sarebbe quella di pianificare una riconversione dei nostri territori costieri e dell’interno con bonifiche che restituiscano alla Sardegna quelle aree rovinate e inquinate dalle inutili industrie fallimentari che ancora violentano il nostro paesaggio.

    Riconvertire quelle aree darebbe occupazione e possibilità di sviluppo al nostro territorio. Ma sviluppo vero, non quello falso della industria parassita.

    • Sovjet says:

      Io credo che però quel modello di sviluppo, con l’impianto di industrie di quel tipo, oltre a rispondere a teorie sella modernizzazione in voga all’epoca (lo sviluppo per poli, cosa che non riguardò solo la Sardegna, ma anche altre aree del Sud), serviva anche per “normalizzare” un’isola percepita come “società del malessere”. A Ottana si investì per ragioni sociali, non economiche. Forse ci dimentichiamo che la Sardegna non era il paesaggio delle Bucoliche di Virgilio, ma una specie di selvaggio West abitato da banditi, con le Barbagie pullulanti di latitanti, sequestri di persona, faide sanguinosissime e bardane.
      Mi raccontava il padre di una mia amica, ufficiale dell’esercito a Nuoro, che ancora negli anni ’60, da Nuoro le auto scendevano in carovana con i pullman perché era frequentissimo il blocco stradale con rapina.
      La Sardegna era anche questo, per completezza di informazione forse è meglio non dimenticarlo…
      Il problema non sono gli errori di ieri, non c’e possibilità di evitarli, nessuna time machine ad aiutarci, ma l’inadeguatezza dell’oggi!
      Maggior professionalità, frantumazione degli stereotipi della “Sardegna über alles” in fatto di bellezza dei territori, genuinità e bontà dei prodotti tipici, di ospitalità dei sardi (tutto ovviamente in salsa autoreferenziale con una spruzzatatina di complesso di inferiorità). Forse è il caso di rimboccarci le maniche, finirla con la scusa della colonizzazione e fare quello che in fondo riusciamo a fare benissimo non appena lasciamo l’isola. Abbiamo moltissimi conterranei e conterranee che vivono fuori Sardegna, che eccellono nel loro campo, si confrontano con i migliori al mondo e non sfigurano.
      Francamente è ora di incolpare noi stessi delle nostre condizioni, fare il mea culpa e poi cercare di migliorare le cose.

      • Gentile Sovjet,

        “Francamente è ora di incolpare noi stessi delle nostre condizioni, fare il mea culpa e poi cercare di migliorare le cose.”

        sicuro di essere sardo?
        Sono completamente d’accordo con lei, ma forse, data l’ora e l’età, sto sognando!

        Cordialmente,

    • Gentile Floris:
      “Riconvertire quelle aree darebbe occupazione e possibilità di sviluppo al nostro territorio. Ma sviluppo vero, non quello falso della industria parassita.”

      Come no, una bellissima idea! E lo sviluppo dove sarebbe? Io vedo i soldi pubblici che pagano le bonifiche; i soldi pubblici arrivano dalle tasse; le tasse dalle attività produttive. Senza le attività produttive i soldi per boninficare da dove li prende, dal deposito di Paperon de’ Paperoni?

      “stravolgere la cultura sarda, come strillava Cicito Masala, è stato il vero delitto”
      Certo, molto meglio produrre pecorino che non si vende e poi andare a Roma per chiedere che lo compri lo stato per regalarlo!

      Qualche altra idea fulminante?

      Cordialmente,

      • Daniele Addis says:

        Scusate, ma perché si parla di soldi pubblici per le bonifiche? In Italia come in Europa vale il principio del “Chi inquina paga”, quindi i costi dovrebbero gravare sulle industrie in dismissione. Mi sembra una cosa spiegata molto chiaramente:

        «l’addebito dei costi destinati alla protezione dell’ambiente a colui che inquina, incita quest’ultimo a limitare l’inquinamento provocato dalle proprie attività e a ricercare prodotti o tecnologie meno inquinanti»
        http://www.amracenter.com/doc/pubblicazioni/siti_dismessi_bonifiche.pdf

        e poi:
        http://www.amracenter.com/doc/pubblicazioni/siti_dismessi_bonifiche.pdf

        Mi sembra anche inutile discettare se fosse utile o inutile il piano di rinascita. C’è stato e, dal punto di vista economico, ha fallito, ma non certo da ora. Ha fallito perché per rimanere in piedi ha avuto bisogno dell’afflusso continuo di soldi pubblici. Poi che senza il piano di rinascita e il forte intervento pubblico italiano le cose sarebbero andate peggio o meglio sono solo delle illazioni (divertentissime, per carità) che lasciano il tempo che trovano. Un piano di sviluppo economico basato sull’apporto continuo di soldi pubblici è una cosa ridicola oggi come lo era allora.

        Insieme alle bonifiche sarebbe anche il caso di dotarsi di una politica fiscale e di una burocrazia più semplici, che permettano a chi vuole fare affari in Sardegna di rischiare i propri soldi senza andare incontro a un suicidio assicurato.

      • Gentile Addis,

        “quindi i costi dovrebbero gravare sulle industrie in dismissione”
        come battuta per Zelig sarebbe bellissima!

        Vediamo. se le aziende sono pubbliche o a partecipazione pubblica, da dove prende i soldi?
        Se non sono pubbliche e sono dismesse o in dismissione, crede davvero di poter trovare quattrini?
        Ma il problema non è neppure questo, quanto il modello che si propone, che non tiene conto della necessità di produrre reddito! Lo capirebbe chiunque che la gestione del territorio (sacrosanta e necessaria) ha bisogno di una fonte di finanziamento, che non può che essere pubblica (altrimenti significa che il territorio lo vende!) e quindi le tasse. Chi paga le tasse se non produce reddito?
        E sa qual’è l’ulteriore problema? Che i politici ragionano come lei (ma non è che per caso ha visto cosa mi ha risposto Maninchedda a proposito dell’indirizzo industriale?)!
        Cordialmente,

      • Daniele Addis says:

        ALCOA è un’azienda pubblica o sta fallendo? In entrambi i casi la notizia mi giunge nuova, ma meno male che me lo ha spiegato Lei.

        “Lo capirebbe chiunque che la gestione del territorio (sacrosanta e necessaria) ha bisogno di una fonte di finanziamento, che non può che essere pubblica (altrimenti significa che il territorio lo vende!) e quindi le tasse.”

        Ma mi faccia capire, quindi è necessario che lo Stato finanzi le industrie per farle investire sul territorio di modo che queste, a loro volta, finanzino lo Stato attraverso le tasse? Beh, questo spiega benissimo il perfetto funzionamento di uno Stato con il rapporto debito/PIL al 120%. Statalismo saltami addosso!
        Credevo che il ruolo principale del settore pubblico fosse quello di imporre delle regole ragionevoli e di farle rispettare, roba tipo il controllo ambientale. Sa, sono cose che si fanno nei paesi civili, ma capisco che sia ingenuo aspettarsele in Italia.

        Ha saltato la parte in cui facevo riferimento ad una politica fiscale da paese civile in grado di incentivare gli investimenti (e il rischio privato, terribile bestemmia per gli statalisti) perché non l’ha capita o perché non rientra nel suo perfetto schema in cui vegono dati soldi pubblici alle aziende che poi li dovrebbero restituire attraverso le tasse?

        Infine mi duole dirle che il sicuramente interessantissimo scambio di opinioni tra Lei e Maninchedda purtroppo me lo sono perso.

      • Stefano reloaded says:

        ALCOA non si riesce a trattenerla in Sardegna, per quanto riguarda l’apparato produttivo, se non cercando di aggirare le norme europee sugli aiuti di Stato e pensiamo che possa mettere mano al portafogli per la bonifica? E come la si obbliga? Oltretutto l’inquinamento di quel sito non è esclusivamente dovuto al periodo in cui ALCOA è stata proprietaria dell’azienda. I soldi per le bonifiche vanno accantonati prima, negli anni in cui le fabbriche sono in produzione. Dopo “li acchiappi per la coda”.

      • Gentile Addis,
        “Ma mi faccia capire, quindi è necessario che lo Stato finanzi le industrie per farle investire sul territorio di modo che queste, a loro volta, finanzino lo Stato attraverso le tasse?”
        ha mai sentito parlare di ENEL o ENI? No? Ma lo sa cosa significa “finanziare” un’azienda? (E non mantenerla in perdita, che è ben altro!).
        Le rendo noto che la strana equivalenza pubblico=disastro è un altro dei tanti stereotipi abusati da coloro che parlano per sentito dire e lanciano le grandi idee sul “chi inquina paga” (senza rendersi conto che si parte da uno slogan sacrosanto e poi paghiamo sempre noi!!). In Italia (e in Sardegna in particolare) la gran parte dei disastri non l’ha fatto il pubblico ma il privato che ha reso pubbliche le perdite privatizzando gli utili (si ricorda FIAT Avio? L’industria dell’acciaio? Mai sentito parlare di IRI che acquisiva le industrie private decotte? La fusione ALSAR Alumetal (ex Montedison) che poi sfociò nella cessione ad ALCOA? Ma si ricorda la vicenda di Sardamag? E l’ALCO (senza la A)? Ma lei è sicuro di sapere di che parla?
        Per l’ALCOA, che lei cita a sproposito, le faccio notare che quando si chiamava ALSAR e fino agli inizi degli anni ’80 era un’industria che produceva ricchezza (e sviluppo). Chi la creò aveva un notevole skill industriale e fece un’operazione ottima (contestualizzata nel periodo di riferimento). L’errore successivo fu di non seguire gli andamenti del mercato pretendendo di tenere aperta una realtà in declino ed è per questo che continuo a dire che ciò che manca è una classe dirigente (politica) capace di dare alla Sardegna un indirizzo industriale. A meno che non si pretenda che un’industria, una volta aperta, duri per sempre (ma lo sappiamo cos’è un’industria o no?). Se i soldi buttati dentro il polo produttivo dell’Alluminio dal momento in cui le partecipazioni statali crearono il gruppo Aluminia inglobando Alumetal (dismessa dal gruppo Edison e in via di rapida decomposizione) fossero stati indirizzati decentemente dalla politica, adesso non si parlerebbe di ALCOA e il Sulcis non sarebbe la provincia più povera d’Italia.
        È un peccato che non abbia visto la risposta di Maninchedda, così capirebbe cosa intendo quando dico che ci mancano i politici capaci.
        Ma in definitiva di che parliamo? Della sua idea di creare sviluppo bonificando il territorio (e i soldi?) di cui si è scordato per passare ad altro, o di che cosa? Ma chiudiamo almeno un argomento, no? La sua proposta (che poi era di Floris) è una evidente sciocchezza, ecco tutto.
        In ogni caso, proprio per ALCOA, il disciplinare di accordo in occasione dell’acquisizione prevede la bonifica, che verrà effettuata (vedremo come e quando). I soldi? Li abbiamo già messi noi finanziando il differenziale del costo energetico, perché ALCOA (tutt’altro che fessi) l’ha inserito nel BP dell’operazione, così lei sarà contento: sarà fatto esattamente ciò che desidera. Una volta finita la bonifica (pagata da noi e del tutto improduttiva dal punto di vista dello sviluppo), tutti a casa! Contento?
        Cordialmente

        PS – le ho risposto seguendo i suoi argomenti, però le faccio notare di non aver mai sostenuto la necessità di creare industrie pubbliche, anche se l’idea non mi spiace, in particolari condizioni (ma si rende conto che l’hanno fatto negli USA con la FIAT? Obama le pare un pericoloso comunista?); altro è finanziare un’azienda privata con meccanismi ragionevoli (e un’idea chiara di ciò che si vuole fare, esattamente ciò che è mancato ad Ottana, Villacidro, Porto Torres&C) e con la chiara consapevolezza dei rischi che che si corrono (ciò che mi piacerebbe dire a Biolchini è che prima di urlare allo scandalo per la in numero di aziende sopravvissute, bisognerebbe domandarsi se qualcuno abbia mai considerato al probabilità di sopravvivenza di n’industria in aree tipo Ottana, Villacidro o Porto Torres: ci ha mai pensato?).
        Infine gli sgarvi fiscali (guarda caso ne avevo parlato con Maninchedda!). Funzionano se un territorio ha già un chiaro indirizzo industriale; in caso contrario sono un palliativo per la corsa alla sopravvivenza: guardare a chi già ci ha provato non sarebbe dannoso.
        Ah, dimenticavo: nelle aree del sud invase dalla criminalità organizzata (presente anche da noi) sono stati fonte di terribili truffe…

    • Daniele Addis says:

      Non la si obbliga, ma magari ci si appella all’Europa (visto che ci sono norme comunitarie in proposito), giusto per vedere cosa si può ottenere. O quando è arrivata la multinazionale americana il territorio era peggio di come è adesso?

      Nessuna equivalenza pubblico=disastro, ma visto che quando si parla di pubblico alla base ci sono sempre i soldi dei privati cittadini, una parte dei quali è dovelta allo Stato sotto forma di tasse, se mancano le condizioni necessarie perché il settore privato produca, anche quello pubblico si sgonfia.
      Chi creò quelle industrie usufruì di fortissimi incentivi pubblici del piano di rinascita, alla faccia della grande intuizione. Sono però curioso di sapere cosa doveva fare secondo Lei la politica di fronte a dei geni dell’intuizione. No, perché accetto le critiche alle proposte (sicuramente approssimative, ma mi piace approfondire e discuterne e poi, magari, cambiare idea grazie a chi ne sa più di me), ma non ho capito bene cosa si potrebbe fare o si sarebbe dovuto fare (ché chiunque agisca diversamente ca dome pensa Lei, il che è ancora un’incognita, fa cazzate).

      Infine la informo che politica fiscale da paese civile non è uguale a “sgravi fiscali”, ma evidentemente la discussione con Maninchedda l’ha lasciata traumatizzata. La Regione deve stabilire le regole (chiare) per lo sfruttamento del territorio e garantire procedure semplici per chi è disposto ad attenervisi rischiando in proprio. Poi la Regione potrà a sua volta investire o partecipare agli investimenti se avrà la disponibilità finanziaria.

      • Gentile Addis,
        1) prendo atto che non parliamo più di risolvere i problemi dell’isola con le bonifiche (che sia una sciocchezza o meno lo lascio a lei).
        2) se non intendeva ‘sgravi fiscali’ mi dice cosa sarebbe la ‘politica fiscale’, (sa io sono un povero ignorante ma mi piace imparare)? La tranquillizzo: Maninchedda non mi ha traumatizzato perché ci sono abituato (sì, accade anche per le cose più terribili). Effettivamente i politici sardi sono più o meno tutti dello stesso livello e ci si fa l’abitudine.
        3) non ho capito la sua prima frase, ma forse mi sono espresso male riguardo ALCOA; glielo ripeto: gli accordi stipulati all’atto dell’acquisizione del primario ex Aluminia prevedono la bonifica, quindi ALCOA la farà; con quali soldi? Quelli che ha messo da parte con gli utili derivanti dall’aver pagato meno l’energia (secondo gli accordi); chi ha pagato al posto suo? Le nostre tasse. Le è più chiaro? La bonifica la pagheremo noi! Se il territorio fosse più inquinato quando ALCOA ha preso lo stabilimento? No, ma il livello non è aumentato granché perché nel frattempo le normative sono state inasprite e la tecnologia delle celle di elettrolisi è migliorata (la tecnologia ALCOA è la migliore del mondo, non per nulla le celle le hanno inventate loro); soprattutto le emissioni gassose le hanno ridotte; se invece Aluminia non l’avesse presa ALCOA, l’inquinamento sarebbe aumentato molto di più; però per saperlo bisogna anche sapere cosa fanno laggiù e questo non è comune né per i giornalisti né i frequentatori dei blog; dubito che la maggior parte di chi legge sappia come si produce l’alluminio primario (forse Deliperi, se è così matto da leggere quello che scrivo);
        4) cosa avrebbero dovuto fare quando le aziende tipo ALCOA sono andate in crisi? Ad esempio passare alla meccanica fine, che si rinnova con molta più facilità, è più flessibile e soprattutto genera indotto capace di crescere da sé, al contrario del petrolchimico e del primario; ma non è che lo dico io, badi bene, lo dice il nordest che ancora produce una sberla di PIL in questo modo; credo che sarebbe stata la scelta più plausibile;
        5) no, non penso che lei dica cazzate, altrimenti non perderei tempo a discutere; né voglio convincerla (non me ne viene nulla in tasca); penso però che lei sia disinformato ed abbia le idee poco chiare riguardo a ciò che è l’industria; penso anche che ciò sia una caratteristica comune a molti sardi e quindi trovo interessante scrivere di queste cose; tanto per dirne una, mi ha sconcertato il post del coordinatore regionale SEL, curioso esempio di poca dimestichezza con le pratiche industriali;
        6) no, non penso che se me l’avessero chiesto all’inizio degli anni ’80 avrei suggerito la meccanica fine perché non sono Stampunieddu; forse sì perché mi illudo di essere un tecnico ed ho un’esperienza industriale che giudico solida, ma potrebbe essere una sciocchezza enorme; quello che so, tuttavia, è che il mondo politico sardo ha commesso un grave errore e continua a commetterlo adesso perché una politica di indirizzo industriale non la fa del tutto, giusta o sbagliata; tanto per dirne una, proverei ancora a creare le condizioni per un insediamenti di medie dimensioni basato sulla meccanica fine, implorando Finmeccanica e svenandomi pur di trovare il modo di farla arrivare; sarebbe comunque più sensato che non sovvenzionare una serie infinita di nuovi caseifici o allevamenti di pecore o coltivazioni di carciofi (e costerebbe anche meno sotto molti punti di vista);
        7) noto che alla fine ricomincia parlare di dare sovvenzioni pubbliche alle industrie private: ma le piace o no?
        8) a tal proposito: sicuro di sapere cosa significa “stabilire le regole (chiare) per lo sfruttamento del territorio e garantire procedure semplici per chi è disposto ad attenervisi rischiando in proprio” come dice lei? Perché le due leggi tanto criticate di cui si parla lo fanno. Guardi, glielo chiedo senza sarcasmo (davvero): ma lei ha idea di come funzionino le leggi di finanziamento che hanno prodotto Ottana, Villacidro e Porto Torres? Perché ho l’impressione che a saperlo siano in pochi e, se non si conoscono, si rischia di dire più che sciocchezze, sono banalità a cui, tra l’altro, è difficile rispondere. Non me ne voglia, però.
        Cordialmente,

      • Daniele Addis says:

        Finalmente ho un po’ di tempo per risponderle:
        1) Mai detto che le bonifiche risolvano tutti i problemi, ma nel momento in cui un’industria smantella ritengo che siano un passo necessario. È ovvio che in assenza di una ripianificazione industriale siano economicamente inutili.
        2) Cerco di farla ancora più semplice: in Italia il TTR (Total Tax Rate) oltre a essere “leggermente” eccessivo (incide per il 68,6% contro una media europea che è intorno al 44%) è pure complicato. Semplificazione e razionalizzazione mi sembrerebbero dei passi obbligati per un paese civile.
        3) Bene, mi sembra il minimo che ALCOA bonifichi dopo tutti i soldi che gli sono stati dati. Sono convinto anche io che i processi moderni siano più puliti rispetto al passato (non che sia esperto in produzione di alluminio, ma l’ho studiata all’università, compreso il problema dello smaltimento di fanghi rossi.
        4) La proposta della meccanica fine è interessante. Bisognerebbe analizzare tutti i costi sull’importazione dei materiali da lavorare e l’esportazione dei prodotti finali (senza scordare quelli energetici) però si può prendere in considerazione.
        5) Ovviamente non sono la scienza in terra riguardo all’industria. Provo a dire la mia e poi leggo quello che risponde chi ne sa più di me per cercare, eventualmente, di imparare.
        6) Finmeccanica mi risulta che fosse in forte perdita nel 2011, ho qualche dubbio che possa manifestare una qualsiasi volontà di investire in Sardegna.
        7) Vede, non sono contrario all’intervento pubblico laddove siano garantiti criteri di trasparenza e efficienza, infatti apprezzo molto le economie del nord Europa dove pubblico e privato si sposano bene. Però non credo che dal publlico possano arrivare tutte le risposte e soluzioni (soprattutto se gestino come da noi).
        8) Ma è ovvio, sulla carta tutte le leggi italiane sono bellissime e funzionano alla perfezione. Quando ci si sposta sul piano reale invece si incontrano problemi che però mica sono legati all’effettiva applicazione di quelle leggi, ma alla mentalità, terremoti, cavallette, madre rinchiusa nell’autolavaggio e così via.
        Comunque no, non conosco alla perfezione le leggi di finanziamento che hanno prodotto i poli industriali. Immagino che sulla carta siano bellissime e perfette però. I loro risultati nel mondo reale sono un problema secondario.

  6. Gentile Biolchini,
    a scanso di equivoci, premetto subito che l’articolo 18 non l’abolirei (ma spiegarne i motivi prenderebbe troppo spazio).
    Ciò detto, condivido poco del suo post, non perché non ci siano imprenditori delinquenti (ma allora anche operai sfaticati e cialtroni) quanto per l’approccio al problema della dignità dei lavoratori, che non si può affrontare rispondendo con uno slogan (gli imprenditori sono delinquenti) ad uno slogan (gli operai sono cialtroni).
    Preso atto che la fine della guerra fredda ci ha cacciato in un mondo in cui domina “il mercato” e che ci ritroviamo europei senza averlo mai votato (e senza aver capito preventivamente cosa significasse) gli imprenditori fanno ciò che sanno fare (quattrini) utilizzando tutti gli strumenti di cui dispongono. In un sistema democratico, dovrebbe essere la politica (i cittadini, noi) a gestire l’armonizzazione tra la possibilità di far soldi creando povertà e il diritto di fare impresa (spesso si parla di “regole”). Sfortunatamente, se ancora non lo si fosse capito, l’Italia ha passato la guerra fredda in una situazione di “sovranità limitata” (sì, eravamo “diversamente autonomi”) e stiamo imparando, non senza fatica, a darci regole da stato moderno. Quanto accade attualmente (dall’articolo 18 ai problemi segnalati da Sovjet, gli imprenditori “straccioni”) è sintomo della difficoltà di diventare uno stato democratico dopo il ventennio fascista seguito dalla guerra fredda. Non è un caso se al ‘pronti-via’ seguito alla caduta del muro non abbiamo fatto di meglio se non rituffarci in un altro ventennio fascista, dimostrando poca dimestichezza con la democrazia. Attualmente viviamo in uno stato dominato da un’oligarchia di cui l’attuale governo è espressione piena (il più poveraccio guadagna un paio di milionate all’anno) e la discussione attorno all’articolo 18 è uno dei sintomi che lo rivela. Aggiungo (per non dimenticarlo) che un’importante fetta del paese non ha più rappresentanza parlamentare (c’è almeno un 20% dei voti che non esprime rappresentanza).
    In definitiva, trattare l’articolo 18 a colpi di slogan è positivo solo per i più forti mentre i più deboli dovrebbero unirsi, partecipare alla politica ed esprimere la possibilità di condizionare la gestione della cosa pubblica, come avviene in tutti i posti normali di questo mondo. Lo dico in altro modo: se ne vogliamo uscirne dobbiamo ricominciare a fare politica tutti quanti, ma non guardando Vespa alla televisione, bensì partecipando attivamente (ad esempio evitando di astenersi alle elezioni). Detto in un altro modo ancora: per levarcelo dal culo c’è da lavorare moltissimo e non sarà un compito semplice, ma di certo non è con i concetti contenuti in questo post che ci riusciremo.
    Nello specifico della Sardegna, siamo conciati anche peggio, perché la classe dirigente è fatta di gente che “spende” e non sa cosa significhi la parola “indirizzo”. Per questo, ad esempio, guardo con interesse a Zedda, che ha un compito improbo ma anche la possibilità di mostrare se siamo ancora capaci di esprimere dirigenti (e non solo amministratori) capaci di immaginare il futuro.
    Sulle questioni Ottana/Villacidro/Porto Torres, potremmo passarci la primavera. Lancio solo un paio di slogan (dopo averli criticati!):
    1) i contratti d’area sono stati gestiti localmente: dove sono i nomi dei politici responsabili dei disastri? Li vogliamo fare o no? Non è che scopriamo che questi signori, fatti i disastri, si sono defilati e sono ancora là a far danno?
    2) gli articoli come quello de La Nuova, sono una vera ciofeca, perché i numeri derivano solamente dagli “accertamenti” della guardia di finanza; qualunque giornalista degno di tal nome sa bene che altro è accertare altro arrivare in giudizio: fare giornalismo in questo modo siamo capaci tutti (e infatti La Nuova è un pessimo giornale!).
    3) attualmente in Sardegna passa lo stereotipo che l’imprenditore (soprattutto “continentale”) sia un truffatore; l’altro stereotipo è che chiunque prenda soldi pubblici sia un truffatore. Bene: perché non proviamo a domandarci per quale motivo un imprenditore dovrebbe fare impresa in un posto dove deve passare il tempo a dimostrare di non essere un delinquente? Non sarebbe il caso di piantarla con la sindrome di Tafazzi? Ci conviene?
    E in definitiva: cosa c’entrano i contratti d’area con l’articolo 18?
    Cordialmente,

    • Daniele Addis says:

      “perché non proviamo a domandarci per quale motivo un imprenditore dovrebbe fare impresa in un posto dove deve passare il tempo a dimostrare di non essere un delinquente?”

      È quello che mi chiedo anche io da diverso tempo. Un mio amico lavora in Germania in una industria inglese che ha una o due filiali anche in Italia. I tedeschi, quando parlano dei colleghi in Italia, fanno un sorrisetto e dicono “quello non è business”, perché per fare le stesse cose che fanno loro devono ricorrere a mille mezzucci e trucchi per aggirare ostacoli burocratici assurdi. Questo non perché siano disonesti, ma perché per affrontare tutte quelle procedure cervellotiche dovrebbero mettere da parte quello che è il loro obiettivo principale, cioè fare profitti.

      • Gentile Daniele Addis,
        giusto per essere chiaro (e posto che abbia capito bene il suo ragionamento): non sono per nulla d’accordo nel violare le regole con la scusa che siano cervellotiche o ‘evidentemente’ sbagliate (tanto per dirne una, non è che sia lecito non pagare le tasse perché ci paiono ingiuste, come dice qualcuno). Le leggi vanno rispettate e, se non piacciono, ci si ingegna di cambiarle democraticamente.
        Io mi riferisco ad un’altra cosa e precisamente alla creazione di stereotipi che da una parte sono privi di fondamento e dall’altra sono nocivi. Ad esempio l’’imprenditore ladro’, come si sente e si legge in Sardegna, spesso un comodo schermo dietro il quale nascondere manchevolezze tutte locali.
        Cordialmente,

      • Daniele Addis says:

        Ma io mica parlo di mezzucci o trucchi illegali. Si tratta di trucchi di tipo contabile-amministrativo che vanno a giocare laddove le leggi sono vaghe e suscettibili di molteplici interpretazioni. Le tasse le pagano eccome e sarebbero probabilmente disposti a pagarne anche di più se ci fossero delle regole chiare e ottemperabili in meno tempo. Il problema non è che le leggi piacciono o non piacciono, è che spesso non si capisce proprio cosa si debba fare o dimostrare per rispettarle.
        Io sono assolutamente d’accordo che le tasse vadano pagate, ma di fronte, ad esempio, a chi ti si presenta con una tabella, praparata con criteri scientifici quanto si vuole, ma oscuri al resto della popolazione, secondo la quale tu rientri in una categoria che guadagna TOT e quindi devi pagare TOT tasse, cosa può fare un qualsiasi imprenditore che invece si trova a guadagnare molto di meno? Uno risponde “si, ho capito che rientro in quella categoria, ma ho guadagnato di meno”. Loro ti rispondono “dimostralo!”. Tu fai vedere i conti, ma purtroppo la loro tabella rimane immutata, quindi l’imprenditore mente automaticamente. In pratica, come ha detto Lei prima, deve dimostrare di non essere ladro.
        E sono anche d’accordo sul fatto che ci si deve igegnare di cambiarle democraticamente, quindi non giustifico minimamente chi evade le tasse. Però giustifico molti di quelli che falliscono e vengono pure additati come evasori.

      • Gentile Addis,
        se riguarda il seondo punto a conclusioone del mio primo commento, ci ritrova un accenno a ciò che dice lei. Desideravo solamente puntualizzare il mio pensiero (e avevo inteso male il suo).
        Faccio notare che nella situazione attuale, in ogni caso, sono sempre i più deboli che finiscono per pagare (chi ha i soldi per i professionisti in gamba paga meno tasse o non le paga).
        Resta la mia osservazione: difendere lo stereotipo dell'”imprenditore ladro” è privo di fondamento (e nocivo).
        Cordialmente

  7. http://www.facebook.com/photo.php?fbid=184688008300829&set=o.249177351817654&type=1&theater

    Questo articolo del 2006 racconta di una società Europrogetti &Finanza a cui ci si doveva obbligatoriamente rivolgersi per la scelta delle aziende. Si dice che l’allora ministro così voleva. L’allora ministro era l’attuale segretario del PD.
    I sindacati all’epoca erano parte attiva in questa scelta.

    Una volta su un blog ho letto un commento di questo tipo:
    “Ma poite noi non bi binchimos mai!”

    “Forzisi Poita seusu scarsusu”

    • Gentile Coro,
      mi permetta una battuta sarcastica: dovremmo evitare di parlare se non conosciamo i termini del problema. Ciò che dice è fuorviante e deriva da una mancata conoscenza dei meccanismi legislativi riguardanti gli strumenti di finanziamento di cui parliamo (Contratti d’Area e legge 488/92).
      Entrambi gli strumenti prevedono che la società richiedente presenti un progetto di investimento sottoponendolo ad una banca d’affari che si assume la responsabilità di verificare la sussistenza dei requisiti richiesti dalla legge. Nel secondo caso (Legge 488/92) la banca d’affari viene scelta dal proponente all’interno di un elenco approvato dal Ministero; nel primo caso, la banca viene scelta da Responsabile Unico del Contratto d’Area; la graduatoria di accesso ai finanziamenti viene stilata sulla base di parametri oggettivi (rapporto investimento/addetti; rapporto investimento/contributo etc). Quindi la possibilità che un’azienda venga esclusa perché “poco gradita” è una clamorosa sciocchezza. Non a caso, per entrambi gli strumenti di finanziamento i ricorsi al TAR sono stati praticamente assenti.
      E’ con questo tipo di stereotipi (e poca informazione) che ci si concia come la Sardegna di oggi: niente giornalisti capaci di andare dentro i problemi, intellettuali che vagano a mezz’aria parlando di fesserie e politici che si spartiscono la torta senza pensare che bisognerebbe pensare a cucinarne di nuove.

      Cordialmente

      • Onestamente non ho capito cosa intende. Ho fatto riferimento a un articolo linkato e leggibile da tutti. Riferimento al fatto che la commistione affari politica, sindacato e chissà cos’altro è più che radicata, per cui la pianificazione “programmatica” a favore di una contrattazione fra lobbies di molteplice genere. Questo è quanto accaduto ai tempi della petrolchimica e non mi pare diverso da quest’altro esempio. Nient’altro.

      • Gentile Coro,
        intendo esattamente ciò che ho detto: che sarebbe meglio conoscere i termini del problema prima di scriverne. Quella delle lobby nel caso dei Contratti d’Area e dei finanziamenti ex L.488 è una sciocchezza e ho anche spiegato il perché.
        Spero di essere stato più chiaro.
        Cordialmente,

  8. Sovjet says:

    Il nostro, non quello sardo, ma quello italiano, Nord compreso, è definito non a caso “capitalismo straccione”. A me sinceramente fanno ridere i richiami di Confindustria, quando se c’è un settore che ha fruito di prebende pubbliche questo è l’industria, nello specifico la grande industria che ormai non fa più neppure occupazione.
    Con la scusa del “too big ti fail” e con la prassi della privatizzazione dei profitti e socializzazione delle perdite abbiamo foraggiato un sistema industriale e imprenditoriale fondamentalmente incapace, con eccezioni certo, ma talmente rare da essere assurte al ruolo di mito: di Adriano Olivetti uno ne abbiamo avuto. Lo stesso Mussolini, pur finanziato dai grandi industriali del nord, Agnelli capostipite in testa. Pare che Enrico Cuccia avesse una lettera di Alberto Beneduce, presidente dell’IRI, a Mussolini. Era il promemoria che Beneduce scrisse a seguito di un incontro con Giovanni Agnelli e Vittorio Valletta avuto nel maggio del ’33. Che non doveva essere stato troppo tenero con i grandi industriali italiani… Il contenuto pare non si conosca, resta fra le carte di Cuccia, ma si sa quale fu la risposta di Mussolini: “non diamogli niente; questi grandi industriali non se la meritano: sono solo dei gran coglioni!”
    Certo, non ammiro il duce neppure quando la violenza esibita è solo verbale, ma quello era il gotha dell’imprenditoria.
    In un libro interessante “Licenziare i padroni?”, Feltrinelli editore (da cui è tratto anche l’aneddoto che ho riportato sopra) il giornalista Massimo Mucchetti analizza il periodo che va dal 1985 al 2001. I risultati a cui perviene sono questi: 1) “a creare ricchezza (quella che poi si riversa sulla comunità) è soprattutto lo Stato imprenditore con quelle imprese che gestiscono servizi pubblici sulla base di una posizione di mercato dominante”, cioè Enel, Eni e Telecom. Nel settore privato creano ricchezza solo chi usa i capitali a scopi produttivi, come Luxottica e Benetton, buona la performance di Mediaset, ma c’e il trucco…di fatto hanuna posizione monopolisitica sul mercato della pubblicità garantito dai forti legami politici con Craxi (ma queste cose le sappiamo).
    A distruggere ricchezza sono i grandi gruppi, quelli che eleggono i presidenti di Confindustria e che chiedono sacrifici e la demolizione di ogni tabù: Fiat, Olivetti, Montedison, Pirelli…perché non investono in tecnologia e si sono più che altro impegnati in scontri di potere per fusioni e acquisizioni. Questo ben prima della cosiddetta sbornia speculativa…
    Interessanti anche i meccanismi che portano imprenditori che investono l’equivalente dei classici semi di melone per controllare ricchezza molto maggiore…Tronchetti Provera, per esempio, con 153 milioni di euro aveva il potere su un gruppo come Telecom che ne valeva 55 miliardi. Cioè 28 centesimi per 100 euro…
    Questo è il capitalismo italiano, prima di Ottana in Sardegna c’è anche l’epopea di Rovelli…
    Il problema vero è che l’art.18 andrebbe sì abolito, ma per i padroni! Che agiscono sempre e solo con soldi non loro, spesso addirittura pubblici o con munifici regali dal parte del pubblico eppure stanno sempre lì.

    • Neo Anderthal says:

      Sante parole, caro Sovjet, nei fatti tantissimi imprenditori -e qui in Sardegna, se guardiamo alle iniziative industriali in grande stile- si sono rivelati come prenditori.
      Creatori di ricchezza, certo. La loro.
      Se andiamo a vedere in tantissimi casi la truffa è nell’ordine quasi normale delle cose, per esempio con finanziamenti per macchinari nuovi da portare in Sardegna ma dirottati presso le sedi centrali o addirittura comprati usati ma a prezzo del nuovo -con relativo “calascio”- per imprese e impianti che mai entrano in produzione, con vendita successiva di tutto, dai macchinari ai capannoni.
      Questi imprenditori/imbroglioni però non pagano mai, il rigore deve essere battuto solo contro i lavoratori, e il loro portiere deve essere azzoppato, reso cieco o comprato/venduto (quest’ultimo è spesso il caso delle “contrattazioni aziendali” per come si è evoluto storicamente in tantissime parti del mondo).
      Teniamoci l’articolo 18 e non caschiamo nella trappola di chi -per negare i diritti a tutti usa lo stratagemma di alimentare un risentimento dei “giovani” non garantiti contro i “vecchi” privilegiati.
      Ci sarebbe poi da sottolineare come un clima di restringimento dei diritti sindacali -e quindi economici-, se pure è certamente e immediatamente conveniente per qualunque datore di lavoro singolarmente preso, è rovinoso sia per l’economia in generale che per la società. Chi guadagna poco o nulla e non ha prospettive spende poco o nulla e non investe nel futuro, e quasi inevitabilmente fa i conti con una angoscia da precarietà e incertezza che pesa sulle vite di tutti, anche di chi non è coinvolto direttamente. Questo ha ricadute a catena su qualunque aspetto della vita sociale, dalla denatalità alle piaghe sociali come l’abuso di farmaci/droghe e il gioco d’azzardo.

  9. Gentile Biolchini,
    lei ha un indubbia capacità di cogliere i problemi, in parte di analizzarli e la “presunzione” di metterli in piazza.
    La invito però ad essere più conseguente e dire quale, secondo lei, potrebbe essere un’alternativa per i Sardi. Attendo curioso.
    Così come accade Zagrebelsky, nell’intervista comparsa su Repubblica di oggi, http://www.repubblica.it/politica/2012/02/25/news/intervista_zagrebelsky-30468832/ si corre sempre il rischio di lanciare appelli nel vuoto, privi di concreta sostanza.

  10. Davanti a queste cifre penso che dovrebbe fare un passo indietro chi ha considerato un’enormità i 90 milioni che la regione dovrebbe stanziare per comprare le aree di tuvixeddu e farci un parco archeologico.

  11. Quando sento dire che al centro dell’interesse delle aziende dovrebbe essere posta la persona umana e non il profitto (lo dice continuamente la Camusso, per esempio), avverto un moto spontaneo di adesione. Filosofica.
    In realtà, in Italia, per molto tempo lo Stato ha interpretato alla lettera questo principio: le aziende erano fatte per creare occupazione, non profitti. Se creavano anche profitti, meglio; se no, pazienza: si chiamava Qualcuno (i nomi li sapete anche voi), gli si dava qualche decina di migliaia di miliardi, e vai col tango. O meglio, col debito pubblico.
    Quanto all’occupazione, ce n’era per tutti: certo, prima figli e nipoti, ma – con l’occupazione al centro – alla fine si imbarcava di tutto (dopotutto, tutti votano).
    Tutto ciò assomigliava – e manco tanto per caso – al socialismo reale: occupazione totale, mercato zero.
    Come si possa sostenere contemporaneamente il principio della dismissione delle aziende pubbliche, e quello della massima occupazione, resta un mistero: se l’azienda deve stare sul mercato, deve – inevitabilmente – fare profitti; che possa reinvestire parte di quei profitti in forme di occupazione “speciali”, in quanto intese a garantire la competitività nel tempo, d’accordo. Ma un conto è la persona umana, intesa come valore individuale, sociale, storico, culturale, etico etc etc., un conto è il lavoro prodotto da quella persona, inteso come fattore di produzione: questo, o è all’interno di rapporti corretti (di produzione, intendo, non solo sociali), o il profitto dell’impresa non può esistere, ed essa deve essere sostenuta in modo truffaldino.
    In effetti, semplicemente, se vogliamo Stati socialmente evoluti, dobbiamo lavorare – e molto – per cambiare il paradigma filosofico di questo mondo, che al centro del suo interesse tutto pone fuori che l’uomo.
    L’impresa queste garanzie non può darle, e non è suo compito darle.
    La politica può intervenire, ma deve sapere che, per dare qualcosa a tutti, qualcuno dovrà pur fare delle rinuncie. E noi, non siamo certo dalla parte di quelli abituati a farle, anche se forse sono finiti i tempi nei quali le “classi lavoratrici” dei paesi sviluppati si dividevano allegramente i frutti sottratti dall’imperialismo ai paesi più arretrati, senza porsi troppi problemi sulle condizioni dei loro omologhi operai o agricoltori.
    Quando lo sfruttamento del sottosviluppo non è più bastato, abbiamo cominciato a sottosviluppare noi stessi; quando questo non è bastato a sua volta, ci siamo venduti i nostri figli. E’ uno strano destino, ma comprandosi il nostro debito, quei popoli che abbiamo sfruttato per decenni, prima o poi si compreranno il futuro dei nostri discendenti.
    Siamo stati ladri, e adesso siamo anche vili: piangiamo sul benessere di cui abbiamo goduto, e non sappiamo vedere il malessere che attende quelli ai quali abbiamo lasciato il compito di pagare il conto.
    Ricordatevi che, se il debito non scende, siamo e restiamo – per ogni giorno che passa – dei ladri; e che, se non mettiamo seriamente mano al portafoglio (chi può, ovviamente), il debito non cala affatto.
    Questa cosa mi disturba: mi sento responsabile, ma non so cosa fare.
    Dato che sono credente, mi sento anche peggio che ladro: mi sento peccatore.
    Da Monti non mi aspetto assoluzioni, ma mi auguro che ci aiuti a rendere l’uomo centrale attraverso la dottrina della solidarietà, dato che quella dell’economia e della giustizia paiono veramente inadeguate.
    Amen

    • Terzo, po mod'è nai says:

      Gianni, il tuo è un discorso onesto che raramente sento fare dalle persone della tua età. Applauso!!! (senza sarcasmo)
      “quando questo non è bastato a sua volta, ci siamo venduti i nostri figli.”
      E’ proprio questo il punto. I giovani, i nostri figli, se avessero le palle dovrebbero darci un calcio nel culo e prendersi ciò che gli stiamo e gli abbiamo tolto.
      Ma questo non accadrà perché gran parte di questi giovani vivono grazie a quegli emolumenti che i loro congiunti anziani si sono dati. La loro posizione è difficile.
      Meglio un giovane che lavora e che mantiene un vecchio, che un vecchio che a volte neanche lavora che mantiene un giovane che non lavora o che lavora precariamente e senza garanzie per due lire.

  12. Vito, secondo te questi cosidetti imprenditori, e ti garantisco che non e’ un’esclusiva della Sardegna ma di tutto il sud Italia, anzi direi del sud del mondo, si sono proposti, si sono stampati i soldi, se la sono cantata e se la sono suoata da soli?
    No perche’ questa storia da come la descrivi sembra che sia finita, invece volevo informarti che in maniera riveduta e corretta, sono i tempi di internet no?, continua a succedere. Se ne hai voglia ti racconto in maniera dettagliata la mia ultima esperienza da dipendente, 8 anni fa non 30, l’azienda si chiamava Atlantis… il comparto era appunto quello dell’Information Technology. Ecco, penso che gli imprenditori, se cosi’ possiamo chiamarli, sono tra i responsabili di quella disgraziata esperienza, ma non i principali responasbili. Dentro quella azienda, e non ho motivo di dubitare che sia sempre andata cosi’ anche in altre realtà, c’erano persone messe da politici di ogni colore, da sindacati, da chiunque avesse ruoli di responsabilità sociale. Non c’e’ bisogno di andare a scavare molto, c’erano figli, segretari particolari, etc etc, che ancora oggi seguono i loro capi dentro le istituzioni. E sai perche’ succede cosi’? E’ lo stesso motivo per cui non succederà mai niente a livello giudiziario, niente di rilevante dico, e nessuno pagherà: il patto, non scritto, è che questi cosidetti imprenditori si prestano a fare queste porcherie perche’ sanno che se dovessero cadere loro, tirando la tovaglia cadrebbe tutto il sistema. Tutto.
    La cosa su cui non si pone l’accento è la responsabilità di quello che è successo e che continua a succedere, che non è di questi ladroni che vengono qua a prendere a 4 mani, ma è della classe politica locale, principalmente, in compartecipazione con quella nazionale, che scientificamente cerca questi pagliacci per potersi mangiare i soldi, distribuire un po’ di posti di lavoro a sardi (ebbene si, sardi) in cambio di fedelta’ politica, e fottersene ampiamente delle occasioni, innumerevoli, sprecate.
    Se invece di avere una classe politica, estenderei, dirigente, di cialtroni, come noi abbiamo da sempre, tranne qualche piccolissima ed impotente eccezione, in Sardegna quelle industrie non ci sarebbero mai, dico mai, dovute arrivare. Solo una classe dirigente di idioti poteva pensare ad uno sviluppo industriale ad Ottana e Villacidro, per parlare dei due casi più eclatanti. Erano fuori mercato ancora prima di nascere, e hanno vivacchiato solo ed esclusivamente grazie a finanziamenti pubblici, di tutti noi. E’ lo stesso che succede ora per Alcoa, che infatti sta dicendo “o mi date i soldi per abbassare il costo dell’energia o me ne vado”, per Saras, che oltre a prendere direttamente o indirettamente una marea di soldi pubblici è addirittura riuscita ad inventarsi il famoso cip6, che tutti paghiamo in bolletta, per la chimica di porto torres, e praticamente per tutta la grande industria in Sardegna. Senza MOLTI soldi pubbici, è in perdita. E’ in perdita perchè oltre ai problemi strutturali italiani, quindi un costo del lavoro che rende totalmente antieconomico per un’impresa sana con molti dipendenti stare in Italia, ci sono i problemi legati all’insularita’, quindi trasporti, reti, infrastrutture e servizi da terzo mondo, o quasi.
    Lo sviluppo dell’Italia lo frena un classe dirigente, politica principalmente ma anche ovviamente imprenditoriale, popolata da pagliacci, incapaci e ladroni. E appena arrivano due professori capaci, tre persone serie messe al posto giusto, sembra siano arrivati i marziani. Ma dovrebbero essere la normalità.

    • Terzo, po mod'è nai says:

      Signor Alfonso, concordo con lei al 90%. Quel 10% residuo riguarda la possibilità che qualcuno di buona volontà ci provi ma è, o si faccia, sopraffare dall’ambiente.

    • Daniele Addis says:

      Il piano di rinascita era nato con lo scopo, dichiarato dalla commissione d’inchiesta, di sradicare il banditismo, le cui cause erano attribuite all’economia agropastorale. Di calcoli economici non c’era traccia ed ha svolto egregiamente il suo ruolo, quello di sradicare un tipo di economia per impiantarne un’altro. Il fatto che il nuovo modello economico fosse insostenibile e destinato al fallimento era del tutto indifferente. L’importante era sostituire la vecchia mentalità con una nuova di zecca, più malleabile e assistenzialista. Dopo tutto lo Stato lo si attacca se lo si ritiene un ostacolo, ma nel momento in cui diventa l’unico intermediario per poter campare l’atteggiamento cambia. Non credo che il risultato finale sia stato voluto, vorrebbe dire attribuire a chi ha congegnato questo piano un’intelligenza diabolica. Credo invece che si sia trattata di vera e propria incapacità e pressapochismo che con il passare del tempo non ha fatto altro che aumentare.

  13. la Marcegaglia è una speculatrice di bassa lega e chiaramente in un paese come l Italia rappresenta la crema degli imprenditori,Marchionne si riempe la bocca ci competitività e di produttività in Italia e poi la FIAT produce le sue macchine in Polonia,Brasile e Serbia
    Ma di cosa stiamo parlando? per gente come questa in Sardegna meglio altri 1000 anni di pastorizia e agricoltura..

  14. La storiella dimostra solo che ogni volta che lo stato interviene riesce a fare solo danni e spechi. A mio avviso bisognerebbe prendersela con i politici visto che la chimica in sardegna è stata una loro invenzione, senza di loro nessuno sarebbe andato aprire un polo al centro della sardegna, gli imprenditori giustamente fino a quando l’hanno trovato conveniente ci son rimasti, quando son finiti i soldi se ne son adatti perchè senza intervento pubblico non sarebbe mai stato competitivo, il guadagno non è un reato.
    L’art18 non si capisce bene che c’entri, ma rientra sempre nella categoria degli interventi statali disastrosi, visto che aumenta la disoccupazione, comprime la produttività e i salari generali.

    • Neo Anderthal says:

      Io invece non capisco cosa intendi dire.
      L’art.18, fino a prova del contrario, non è per nulla un “intervento statale” -locuzione che correttamente indica una qualche forma di finanziamento pubblico a qualche genere di impresa- ma una norma a tutela dei lavoratori, contro i licenziamenti immotivati o motivati da discriminazione.
      Per aumentare l’occupazione bisogna favorire i licenziamenti per ritorsione? Tesi interessante.
      A me risulta il contrario: se e quando si ammettono i licenziamenti “a piacere”, i salari dei lavoratori -sotto ricatto e senza difesa- calano, e di parecchio.

  15. Efisio Loni says:

    A mio avviso, signor Biolchini, si tratta di colonialismo. L’industria in Sardegna è arrivata sull’onda di una colonizzazione culturale, linguistica, antropologica e persino militare. Difficile difenderla come lei ha fatto qualche tempo fa. Legittimo però che lei la pensi così. Oggi giornalisti e politici che allora ingrassarono e fecero carriera agitando le bandiere del neocolonialismo industriale, si ripropongono quali fossero verginelle candide, ma si potrebbe leggere la vita a molti nelle aule istituzionali e nelle redazioni. Invece, chi gridò allo scandalo e all’offesa fu emarginato culturalmente, socialmente e politicamente. Bastipensare ai vari leaders neosardisti. Furono bollati di passatismo. E questo succedeva anche negli Anni Novanta, non nei lontani Anni Sessanta del secolo scorso. Quando impareremo ad accorgerci dei disastri mentre si svolgono e a impedirli? La classe dirigente sarda è completamente inaffidabile e non paga mai il conto. Ieri leggevo su Sardegna Democratica il pianto greco del rettore dell’università di Sassari Mastino sul Lilliu apostolo della lingua sarda. Dopo la guerra fatta al sardo da quell’ateneo, non me lo sarei mai aspettato. L’ipocrisia di questa classe dirigente, soriani compresi, è incredibile. Si canta sempre a soggetto in nome di un situazionismo furbesco e cialtrone. Per i contratti d’area, vicenda che ricordo bene, è andata nello stesso modo. Quanti cantori allora del verbo industriale, anche dalle segreterie di partiti popolari e oggi…

  16. riccardo says:

    la marcegaglia è una di quelle che dovrebbe tacere visto i vantaggi che ha avuto con il g8 de La Maddalena…..
    poi della fiat meglio non parlare…..

  17. Lo spreco di denaro pubblico si commenta da sè, ma non vedo cosa c’entri con l’articolo 18, sul quale sono oggi puntati i riflettori per la polemica del giorno. Di sicuro bisogna riformare il mercato del lavoro, è ridicolo che gli aumenti di stipendi siano dati dall’anzianità e non dalla bravura e che i contratti siano negoziati a livello nazionale per categoria, così non c’è nessun incentivo per essere più produttivi. E’ anche difficile per le aziende stare al passo con tutte le leggi e regolamenti e tasse e gli imprenditori fanno bene a lamentarsi. Negli anni 60 investiva lo stato perche’ soldi privati non ce n’erano tanti, adesso ci sarebbero, ma il capitale privato specialmente estero ha paura di investire in Italia per i motivi suddetti, mercato del lavoro inadeguato ed eccessiva burocrazia, due zavorre che rallentano la maturazione del nostro capitalismo mentre altre nazioni fanno grossi passi avanti (il PIL del Brasile ha superato quest’anno il nostro).

    • Neo Anderthal says:

      Il Brasile è enorme -28 volte e passa più grande dell’Italia- ha risorse naturali di ogni genere, ha oltre 3 volte tanto la popolazione dell’Italia, sta conoscendo un grande sviluppo accompagnato da norme di tutela del lavoro e di welfare state che guardano al modello europeo.
      Non vedo cosa c’entri col fatto che cosiddetti imprenditori rubino a man salva, alla faccia di imprenditori onesti e maestranze.
      Chi stabilisce poi la “bravura”? C’è ancora da dire che la contrattazione nazionale impedisce il crearsi di situazioni in cui la direzione della fabbrica o dell’impresa letteralmente “comprano” i sindacalisti, con incentivi, premi o soldi veri e propri, e con questo sistema fanno quello che gli apre e pagano come vogliono -POCO-.
      Sono situazioni che in parte si creano ugualmente, ma che sarebbero molto più frequenti e nocive se si abolissero le garanzie fornite dai Contratti nazionali. Dove è stato fatto, vedi USA, le retribuzioni e le condizioni dei lavoratori sono sempre peggiorate, e i sindacati sono stati distrutti.
      Viceversa mi risulta che tra i motivi non secondari per cui non si investe in Italia ci sia il fatto che -per fare un esempio solo- chi fa una alterazione contabile -ovvero un falso in bilancio- la passa liscissima, se un fornitore o un cliente non ti paga non gli succede nulla e non si vedono più i soldi -persi per anni e anni nella migliore delle ipotesi. Insomma il freno agli investimenti stranieri sono la corruzione generale e l’inaffidabilità delle categorie imprenditoriali, molto prima e più che ogni supposto limite costituito dalle garanzie per i lavoratori.

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