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No, “l’assordante silenzio degli intellettuali sardi” non esiste! Michela Murgia e la censura nelle pagine culturali dei giornali isolani

La pubblicazione nella pagina culturale della Nuova Sardegna di oggi del saggio di Michela Murgia ospitato nel volume dedicato ad Antonio Pigliaru “Il soldino dell’anima” (saggio che conoscevo da qualche settimana perché, per fortuna, qualche amico editore mi regala ancora i suoi libri e lo ringrazio per questo) mi consente di sviluppare con voi alcune riflessioni a margine delle considerazioni proposte dall’amica scrittrice.

Anche perché il titolo proposto dal quotidiano sassarese (“Nel mondo che cambia l’assordante silenzio degli intellettuali sardi”) è, a mio avviso, autoassolutorio, fuorviante, e ribalta clamorosamente il senso delle parole della Murgia.

Intanto, cosa dice la scrittrice? Sostanzialmente due cose (e mi scuserà se sintetizzo brutalmente il suo pensiero).

La seconda (che non svilupperò) è che i sardi hanno perso la loro capacità di riconoscersi come popolo e che servono intellettuali che demoliscano dalle fondamenta il concetto di autonomismo.

La prima (che mi interessa di più) dice invece più o meno questo: “In Sardegna è ridotta l’accessibilità ai mezzi di informazione di massa – pochi e politicamente vincolati – che restano necessari per far udire pensieri alternativi”, “la concessione del diritto di parola pubblica è oggi lasciata alla discrezione del potere economico e politico”, anche perché internet non è poi così diffuso.

Non dunque del silenzio degli intellettuali, ma di una sostanziale impossibilità degli intellettuali a far sentire la loro voce nei mezzi di informazione di massa parla Michela Murgia. Cioè esattamente il contrario di quanto afferma il titolo della Nuova Sardegna.

Parto da questo punto che mi sembra fondamentale e rilancio il concetto a parole mie: nelle pagine culturali dei giornali sardi scrivono sempre gli stessi e finiscono, grosso modo, sempre le stesse notizie. Sull’Unione e sulla Nuova ci sono rendite di posizione lunghe ormai decenni (a Sassari il pur ottimo Manlio Brigaglia scrive di qualsiasi cosa e non lascia toccar palla a nessuno), oppure posizioni consolidate in virtù di notorietà inversamente proporzionali alla capacità di analisi (per esempio Marcello Fois e Flavio Soriga: ottimi scrittori, ma spesso modesti interpreti della realtà isolana, soprattutto politica, che sembrano non conoscere appieno).

Al potere economico e politico citato dalla Murgia aggiungerei anche quello delle lobbies universitarie, delle case editrici e dei gruppi di potere culturale (grandi organizzazioni e grandi compagnie), il cui unico obiettivo è quello di far credere all’opinione pubblica che tutto sia immobile e che gli altri soggetti che entrano sul mercato delle idee e delle produzioni culturali non siano all’altezza della situazione.

Non si tratta di un aspetto di poco conto. Perché se i lettori comprano i libri di cui trovano notizia sui giornali, le amministrazioni pubbliche finanziano associazioni e compagnie anche condizionate dello spazio che le loro iniziative trovano sui giornali.

Parlare di silenzio degli intellettuali sardi è dunque profondamente sbagliato. Perché in tanti si manifestano (con libri, spettacoli, mostre, iniziative e dibattiti) ma chi deve ascoltare si dimostra inevitabilmente sordo. O forse finge di esserlo, perché un’informazione non condizionata dai poteri di cui abbiamo parlato sopra, cambia gli equilibri e disegna gli scenari nuovi. Cosa che, ad esempio, il quotidiano sassarese non vuole assolutamente fare, impegnato com’è da anni a conservare lo status quo della cultura, dello spettacolo e dell’intellettualità sarda.

Di quale silenzio sta dunque parlando l’anonimo titolista della Nuova Sardegna? Del silenzio di chi viene di fatto ignorato?

La critica (letteraria, teatrale, artistica, culturale) è morta. Morta. E i nostri capiservizio non sembrano crucciarsi più di tanto. Sulla Nuova spesso gli scrittori si sono recensiti tra di loro. Oppure vogliamo parlare della imperdibile rubrica dei libri al Tg3 regionale? Vogliamo parlarne? Veramente? Con il suo curatore che per ben due volte si è fatto recensire un libro da un collega compiacente?

Inoltre, far pubblicare anche solo la notizia di uno spettacolo o di una iniziativa sta diventando cosa sempre più ardua, bisogna avere l’addetto stampa giusto o chiedere un favore all’amico giornalista (se è amico). Se non si conta nulla o, peggio, si è nella “lista nera”, non c’è nulla da fare. Negli operatori culturali regna una rassegnata rabbia per questa situazione che si trascina da anni e a cui non si trova rimedio. Intanto però ogni sfilata di miss trova spazio con foto e interviste.

E’ evidente che le cose stanno, se possibile, peggiorando. L’Unione Sarda (che negli anni ‘80 aveva come caposervizio Alberto Rodriguez) ora è tutto un tripudio di perizoma, push up, tronisti e donne scosciate. La Nuova Sardegna resta invece fedele al suo immutabile conformismo stile “simil Repubblica”.

Ripeto: gli intellettuali sardi parlano in tanti modi (con libri, spettacoli, conferenze e dibattiti). Se i giornalisti che si occupano di cultura nei due quotidiani sardi e al tg3 non se ne accorgono o fanno finta di non accorgersene di chi è la colpa? Di chi urla o di chi è sordo?

Inoltre, per avere lo status di intellettuale, è forse necessario finire sui giornali? Come non riconoscere che c’è un lavoro intellettuale che si tiene lontano dai riflettori e che allo stesso tempo agisce con efficacia nelle nostre comunità?

Certo, forse potremmo dire che in Sardegna non ci sono intellettuali all’altezza della situazione. Ma come giustamente afferma Michela Murgia “non c’è alcun ruolo intellettuale di cui discutere se l’elaborazione di pochi non ha spazi per divenire patrimonio di tutti”. Se di un libro non se ne parla pubblicamente, se non scaturisce un dibattito (e non una “polemica” come anche oggi, in ossequio al suo conformismo, la Nuova titola), le pagine della cultura diventano degli sterili contenitori pieni quasi di stupidaggini televisive, o di notizie buttate lì senza criterio, senza capo né coda.

Il titolo della Nuova si appiglia poi concettualmente ad un passaggio laterale del ragionamento di Michela Murgia, cioè che oggi “assistiamo al triste spettacolo di intellettuali che per lo spazio di un editoriale si adattano ad essere inoffensivi o conformi, firmano la riflessione sempre a consuntivo e non si compromettono mai col presente”. La leggenda dell’intellettuale venduto al potere fa sempre colpo, e in effetti qualcuno c’è.

Ma si tratta oggi di fenomeni marginali. Chi difende Cappellacci sui giornali? Nessuno. Chi ne parla male? Tantissimi: in pubblico e in privato, con il loro lavoro e con la loro testimonianza. Diverso era invece negli anni di Soru, in cui la Nuova Sardegna sembrava voler dare spazio solo a chi magnificava le azioni del presidente, e pochi tra gli scrittori isolani parvero allora resistere alla chiamata alle armi.

In conclusione, non so se (come dice Michela Murgia) “c’è bisogno di intellettuali nuovi”. Di sicuro con queste pagine della cultura e degli spettacoli fatte così male, gli intellettuali nuovi invocati da Michela rischiamo di fare la fine di quelli vecchi che non trovano mai spazio, solo perché per alcuni c’è tutta l’attenzione possibile e per altri solo il silenzio. E questo per non alterare gli equilibri editoriali, accademici, politici, di parte.

Ecco perché il titolo della Nuova Sardegna di oggi suona come una insopportabile irrisione.

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45 Comments

  1. E’ passato più di un anno. Che dire? Qualcosa si muove? Poco. Anzi pochissimo. Quasi nulla. Se possibile e come prevedibile si sono aggiunte rendite di posozione. E quindi non rimane che fare copia e incolla sottoscrivendo Vito citando Cicci Borghi: (…) Concordo su tutta la linea biolchina. E’ una linea d’ombra. Mi avvito con Vito e punto lo stesso dito. Per di più, ieri alle ore 13, l’edizione sraordinaria del tg3 dedicata ai movimenti di guerra in Libia è stata interrotta per mandare in onda un filmato intitolato “Boghes” e firmato da Antonio Roich, giornalista pensionato della sede regionale rai. E’ una Sardegna che si distingue per una abissale e diffusa mediocrità incartata fra le pagine a stampa e i canali radio/televisivi. (…)

  2. Antonio Gramsci says:

    “Il non volersi impegnare a fondo, il distinguere tra ciò che deve fare un intellettuale e ciò che il politico (come se l’intellettuale non fosse anche un politico e non solo un politico dell’…intellettualità) e in fondo tutta la concezione storica crociana è all’origine di questa diffusione. Si vede che essere partigiano della libertà in astratto non conta nulla, è semplicemente una posizione da uomo di tavolino che studia i fatti del passato, ma non da uomo attuale partecipe del suo tempo”.

    Quaderni del carcere.

  3. Walter Falgio says:

    Gli intellettuali sardi esistono eccome. Sono sparsi per il mondo, in università, centri di ricerca e non solo a occuparsi di temi, progetti, dibattiti importanti. Quelli bravi che sono rimasti qui, non hanno molta voglia di buttare il loro tempo in chiacchiericci sterili. Non si tratta di settarismo, ma di assenza totale di stimoli esterni. In questi casi pertanto capita ciò che spiega bene Vito, ossia prendono piede canali alternativi di comunicazione a volte di qualità altre volte no, oppure si alimentano confronti chiusi e specialistici che soddisfano solo pochi fruitori. L’intellettuale, questa figura peraltro abbastanza indefinita, non si impegna a comando, perché c’e’ crisi o perche’ taluni ritengono ci sia un bisogno. Io credo che l’elaborazione culturale sia un po come l’arte, nasca spontanea da un lampo mentale, da uno sguardo, e diventi ponderosa riflessione. Pertanto, teniamoci le pop star della cultura iperpresenti e ipercomunicatrici, teniamoci i nuovi predicatori rigorosamente radical e rigorosamente contro, teniamoci i megagiornalisti di prima serata, teniamoci scrittori che fanno la morale e moralisti che fanno gli scrittori. Gli intellettuali, forse, osservano, tacciono, forse si nascondono. Forse sbagliano. Forse no.

  4. Credo che Lucio abbia ragione: avrei dovuto essere meno “dialettico”, e forse avrei dovuto lasciare e accettare serenamente che alcune cose, nelle quali credevo e credo, non si possano proprio fare, per un ignobile gioco delle parti.
    Ma dato che sono abituato da molto tempo ad espormi e a mettere il mio nome e la mia faccia sulle cose che faccio e che dico, mi è sembrato più giusto, anche se molto più duro, continuare.
    Su una cosa Lucio non ha ragione: non credo di essere stato zitto. Anzi, in tanti mi accusano di verbosità eccessiva. Il mio pensiero, per quanto modesto ed insignificante possa essere, l’ho sempre espresso. Anche qui.

  5. Carlo Asili says:

    Ciao Mossad, sì sono Carlo Asili del Siotto, però, mannaggia, per un po’ mi hai preso in contropiede! Ho capito chi sei: C.Z.!! Del quale so da fonti bene informate che hai fatto e fai – non poteva essere diversamente, dati i tuoi esordi e la tua passione – cose egregie: avendo tra l’altro anche il pregio – scusa se è poco – di non essere mai stato all’Università un leccaculo dei professori, ma addirittura, se ben ricordo, un bel caratterino tosto. Chiusa la parentesi personale per non annoiare gli altri commentatori, ti chiedo: cosa intendi per “direzione, che è quella dell’abbattimento coi fatti scientifici…”? Ti riferisci al tuo lavoro? Certamente chi può, come te, nella sua professione deve assolutamente cercare di fare innovazione culturale per spezzare il cerchio malefico che circonda l’Isola. Io che sono solo un aspirante pubblicista ai suoi esordi, non posso che suggerire qualcosa di più “terra terra” come un’associazione culturale. Un abbraccio e un caro saluto a te e a L.P. quando la senti.

    PS: ma perché visto che sei una persona seria e in gamba non rivelare a tutti la tua identità, anziché solo a me? Il cambiamento comincia anche coll’identificarsi per chi si è veramente, non certo per sterile protagonismo, ma per dare più senso e forza a quel che facciamo, dato che siamo persone in carne e ossa: o no?

    • Mossad says:

      Ben ritrovato Carlo, bem ritrovato e, per non annoiare gli altri, posso dire che negli ultimi mesi l’anonimato è per me decisamente più indicato. Ho sempre scritto firmandomi in prima persona ma sono poi successe delle cose che suggeriscono, per il momento, di mantenere un minimo di riserbo. Come vedi sono tanti quelli che usano dei nicknames, però credo che la rete debba ancora raggiungere una maturità di comportamenti che permetta ai suoi utenti di non subire controindicazioni perniciose…
      Riguardo al ruolo degli intellettuali, io forse esagero, però davvero dobbiamo lavorare parecchio sul riposizionare la Sardegna sullo stesso piano della speculazione scientifica degli altri paesi, proprio cominciando a non intestardici sul grande equivoco dell’identità, fatto che, ad esempio per gli studi storici e medievistici in particolare, ha generato una serie di equivoci che oggi sono duri a morire e totalmente fuorvianti. Cosa possiamo fare? come diceva qualcuno in uno dei commenti a questo post?
      Personalmente sto consegnando in questi giorni un mio saggio per un volume miscellaneo diretto agli studiosi di alcune università nord americane, dedicato alla Sardegna e il mondo mediterraneo durante il Medioevo. Posso estrarre qualche (breve!) considerazione iniziale dal mio lavoro, giusto per far capire:
      § 1 La storiografia sulla Sardegna medievale. Importanza di una rilettura metodologica.
      “Il problema di una rinnovata e generale riflessione sullo stato dell’indagine medievistica in Sardegna si pone oggi in maniera sempre più pressante e ineludibile, soprattutto in seguito ai risultati raggiunti dalle più recenti ricerche interdisciplinari. È ormai evidente che nuovi contributi all’indagine scientifica possono venire da un profondo riesame del patrimonio documentario pervenutoci che non si basi sull’accettazione acritica della storiografia abitualmente considerata. Essa è spesso frutto di studi imprecisi, semplicistici e non basati su una rigorosa lettura delle fonti documentarie. Così è accaduto per l’eccessiva fiducia data a documenti e opere non pervenuteci in originale, spesso riscritture tarde, contenenti fonti anacronistiche, non verificabili o addirittura false. Tutto questo contribuisce a collocare in modo equivoco e poco nitido la Sardegna all’interno di un Mediterraneo peraltro da rileggersi in una prospettiva per alcuni tratti differente da quella dell’abituale ricostruzione braudeliana, come evidenziato dal gran libro di Horden e Purcell, The corrupting Sea”.
      E poi comincio ad analizzare punto per punto, scientificamente, verificando sul campo (soprattutto i documenti originali) la mia proposta, che ormai è molto condivisa appunto al di fuori della Sardegna, mentre qui da noi non se ne parla.
      Concludo poi la mia introduzione con questi (altrettanto brevi) concetti:
      “Il problema dell’esame delle fonti è dunque cruciale per lo sviluppo della ricerche sul Medioevo sardo; la storia dell’isola risente infatti di una singolare propensione alla lettura identitaria dei suoi avvenimenti. Se tale impostazione si è spesso risolta, a livello divulgativo, nella produzione di testi a carattere elogiativo per le glorie dell’isola, descritta con una notevole e acritica carica nazionalista, anche negli scritti scientifici è prevalsa una impostazione fortemente sardocentrica, che ha condotto ad analisi in taluni casi semplicistiche, basate su dati forzati o addirittura, inesistenti. Il risultato è stato un insufficiente progresso degli studi; qualsiasi tentativo di affrontare, ad esempio, l’“enigma” della nascita dei giudicati sardi senza porre in rilievo le innumerevoli connessioni di politica, economia e cultura internazionali, continuando a percorrere l’impostazione localistica, impedisce di comprendere appieno lo sviluppo degli avvenimenti e i perché della divisione politica dell’isola in quattro entità territoriali separate.
      L’immagine della Sardegna riportata dalla storiografia tradizionale propone una continua storia di riscrittura del proprio passato, iniziata nel tardo Cinquecento con l’opera di Giovanni Francesco Fara e di Giovanni Arca; una storia talvolta malamente falsificata, che ha la sua tappa più triste nell’episodio dei falsi d’Arborea, i quali hanno veicolato un’immagine distorta del Medioevo sardo, con la creazione di un grossolano apparato di sovrani inesistenti, di una letteratura isolana avanzatissima per l’epoca, di miti e leggende alle quali ancora in parte si dà credito”.
      Dai, non voglio annoiare nessuno ma si chiedeva cosa può fare in concreto ciascuno di noi, io ci ho provato a spiegarlo in due parole, scusandomi con Vito per aver occupato troppo lo spazio in questa discussione.
      A risentirci, Carlo: mi trovi facilmente su internet se vorrai parlare in uno spazio nostro.

      • Alessandro Mongili says:

        Scusa Mossad, ma a leggere gli storici sardi ritrovo anche una certa propensione a negare in toto ogni particolarità alla storia dell’Isola, come se il problema fosse sempre quello di decidere se la storia della Sardegna è una storia particolare o generale. In particolare, visto che citi i Falsi d’Arborea, la spinta è sempre quella di impiantare la storia della Sardegna, più che all’interno di una storia generale, all’interno della storia d’Italia. Ora, a mio modesto parere, sono forti i legami con il Nord Africa (all’incirca per un millennio), con la Penisola Iberica e anche, almeno nei primi secoli di presenza fenicia, con il Medio Oriente. Di questo si parla pochissimo. Poi a mio parere è fondamentale fare il lavoro che tu dici di fare, però se mostri da subito questo bias mi sembra che non parti con il piede giusto perché mi sembra che abbia già una tesi in testa prima di iniziare.
        Non si è mai neanche analizzata l’importanza di storici filo-italiani come Arrigo Solmi (cui è dedicata una strada a Cagliari nonostante abbia firmato il Manifesto della Razza), né sottoposta a vaglio critico l’ipotesi della “italianizzazione primaria” della Sardegna a seguito di una “dominazione pisana”, che a occhio e croce sembri faccia acqua da tutte le parti.
        Personalmente, non mi occupo professionalmente di Sardegna, ma, forse per questo, sono interessato e, per dirla francamente, deluso dalle opere che circolano.
        Poi sono d’accordo con quello che scrive Vertigine. Franciscu Sedda è un intellettuale che viene emarginato per il suo essere indipendentista, e questo a me non piace per nulla.
        In sintesi, tutto questo spazio dato ai sardisti, nazionalisti sardi e indipendentisti non lo vedo nello spazio pubblico, in larga misura occupato da chi invece si oppone a una rilettura della nostra storia. Neanche tu probabilmente li conosci, perché dovresti sapere che della critica del concetto di “identità” proprio loro fanno uno dei focus della loro produzione.
        A mio parere il problema rimane sempre questo conformismo e l’incapacità di dare riconoscimento a chi la pensa diversamente, discutendone le idee senza stigmatizzarle a prescindere, come mi sembra tu faccia.
        Poi per quanto riguarda Padova, città in cui io lavoro, mi sembra un luogo molto provinciale, incomparabile rispetto ai grandi centri intellettuali del mondo. In effetti, penso che invece di guardare a un luogo così provinciale e démodé come l’Italia, gli intellettuali sardi dovrebbero fare quello che fanno i giovani sardi: andare a Londra, a Parigi, a Barcellona, negli Stati Uniti. Nei luoghi dove il dibattito non è fermo a trent’anni fa.

      • Mossad says:

        Beh, il biasimo non è certo per la nostra storia, che è interessante e che pure studio con passione, il biasimo è per talune impostazioni e sovrastrutture dei nostri ricercatori, che a mio parere partono loro da posizioni ideologiche che rischiano seriamente di far perdere di vista una corretta focalizzazione al lavoro storiografio. Certo poi che Solmi e Besta erano figli del loro tempo e che nella loro analisi hanno anche inserito parte del loro pensiero sul vissuto quotidiano. Quanto al Nord Africa, è appunto oggetto delle mie attuali ricerche, finalizzate a riconoscere o meno la Sardegna e il Maghreb quali terminali di un flusso commerciale che dalle piazze alto tirreniche conduceva fino a quei territori. Tutto è molto più complesso di quanto sembra, non ideologizziamo e non mettetemi in bocca pensieri e parole che non ho detto. Un cordiale saluto.

  6. Vertigine says:

    Gli intellettuali se la contano e se la suonano nella loro campana di vetro. Per questo non hanno ruolo. Esistono in Sardegna intellettuali di spessore. Ma non sono consiglieri regionali e non hanno vinto premi letterari tali da farli emergere come delle pop-star appunto. Il problema non è la mancata elaborazione, il problema è questa elaborazione politico-culturale ha talvolta nome e faccia che non sta in sintonia con le guidelines della comunicazione mediatica di questo triste momento storico.
    Uno di questi è Francesco Sedda, meglio noto come Franciscu Sedda scrittore di diversi libri, articoli, impegnato politicamente e intellettualmente da più di un decennio, ma isolato e marchiato come “indipendentista”, e purtroppo per lui senza premi popolari (infatti un premio l’ha vinto anche lui, in cui ottenne il riconoscimento dal celeberrimo Umberto Eco).
    Un’elaborazione importante che rilegge il sardismo con altri occhi e arriva ad altre conclusioni.
    Invece che confrontarsi si è scelto di ignorarlo e anche di etichettarlo come un eretico.
    Sarà perchè amo certi eretici come Giordano Bruno, credo sia un complimento importante.
    Si parla e si trita di Gramsci e di Pigliaru, gente morta tanto tempo fa, con elaborazioni importanti dal punto di vista metodologico ma superati nei contenuti e si preferisce ignorare i vivi.
    Non tanto perchè inesistenti, ma perchè come in questo caso scomodi.
    Cosa dovrebbe fare un’intellettuale se non essere scomodo? Ma, non si sa.
    L’accusa che poi viene fatta a questo trentenne e di portare acqua al proprio mulino…
    Accusa, misera, miope dettata appunto dal basso spessore dei tempi.
    Ma mi chiedo quando Gramsci faceva le sue analisi le faceva per portare consenso al partito fascista o al partito comunista? O semplicemente era convinto che il comunismo fosse la risposta alla società italiana e al mondo intero?
    Gramsci lo diceva – odio gli indifferenti io sono partigiano.
    Come mai in questa terra chi elabora seriamente viene accusato di partigianeria come se questo fosse un demerito?
    Come mai chi non nasconde la propria appartenenza politica e dichiara qual è il suo fine e ne costruisce l’elaborazione diventa qualcosa da accantonare?
    Vogliamo politici con disonestà intellettuale. Tutto qui. Sedda è fuori tempo, demodè.
    Onesto intellettualmente diventa quasi stupido per questa sua coerenza.
    Non ho ancora visto pezzi di Franciscu Sedda su La Nuova Sardegna.
    Il motivo credo sia chiaro a tutti, non risparmierebbe analisi e critiche a nessuno, compresa la sinistra. Ma sarebbe propositivo, come sempre. E che dia pure soluzioni…figuriamoci…ancora più scomodo. Soluzioni senza sè e senza ma.
    Ma viviamo nel berlusconismo e nel veltronismo… Ma anche, ma anche…ma anche
    Quelli che si possono permettere una qualche critica lo possono fare perchè hanno dalla loro la popolarità, intesa proprio come pop e per questo quasi tutto le viene “condonato”.
    Finchè non scendono dalle loro “stelle” è chiaro.
    Chi non ha questa popolarità, ma ha comunque un’importante spessore intellettuale che permetterebbe certi salti di paradigma viene serenamente isolato.

    Il problema non è nell’assenza dell’intellettuale o del dibattito sugli intellettuali. Il problema è nel sistema mediatico-politico che premia chi ha successo o in alternativa chi ha posizioni di potere. La qualità, lo spessore elaborativo quando emerge e gli si da spazio è più un caso che un riconoscimento di merito.
    La popolarità non è certo un danno o un demerito, ma non può essere il metro della qualità dell’elaborazione e della conseguente partecipazione al dibattito.

  7. Carlo Asili says:

    Una modesta ma spero concreta proposta, che potrebbe cercare di servire la causa della cultura in questa regione: perché non fondare, caro Vito, io, te, Mossad e chiunque altro vorrà unirsi a noi, un’associazione che provi ad essere veramente fuori dai soliti schemi, e avente come primo proposito iniziative di vera, forte democratizzazione della cultura? Esempi qui in Sardegna e altrove non ne mancano, dunque…
    Un saluto a tutti.

    • Mossad says:

      Ma sei il Carlo Asili del Siotto? Noi ci conosciamo benissimo e ti darò qualche indizio per rivelarmi a te e solo a te. Non ho fatto il Siotto, Siamo stati colleghi in lettere, sono il cugino di L. P. ed ex della tua compagna K. A. Vediamo se capisci… Carina l’idea dell’associazione, ma forse non esattamente ciò che serve. Io continuo coi miei studi a lavorare su una direzione, che è quella dell’abbattimento coi fatti scientifici di questa grande campana di vetro che impedisce alla Sardegna di essere davvero una delle tante parti del mondo, né la prima né l’ultima, sicuramente non “speciale”.

  8. Carlo Asili says:

    Caro Vito e caro Mossad, stavolta avete toccato il punctum dolens: sulla Sardegna, nel campo della cultura, incombe ormai da decenni una cappa asfissiante che non consente alcun ricambio salvo pochissime, pregevoli eccezioni. Nello specifico si è instaurata una situazione – inamovibile, temo – di comodo ed economicamente (molto) vantaggioso conformismo, in nome di un continuamente conclamato ed ormai ossessivo e pervasivo senso di sardità, di coartante appartenenza etnica: che nel tempo (molto presto, direi) da innovativo, giusto e legittimo è diventato un asfissiante leit-motiv, uno slogan monocorde e martellante che coinvolge un po’ tutti gli ambiti della produzione culturale isolana: dal teatro al cinema, dall’Università alla scuola. E’ una versione particolare, fors’anche peggiore, perché a mio avviso assai più perversa, di quello che il sociologo Lombardi Satriani chiama “funzione narcotizzante del folclore”: in quest’ultimo caso la cultura egemone incoraggia e utilizza il folclore espresso dalla cultura subalterna per meglio dominarla; nel nostro, invece, la sacrosanta riscoperta delle proprie radici culturali da parte dell’intellettualità locale si trasforma – spesso per pure e semplici ragioni di protagonismo, poltrona e denaro – in quello che voleva combattere, ossia la cultura egemone, col dar vita ad un panorama omologato e senza via di uscita, utilizzando il folclore e tutto quando fa capo alla “sardità” per impadronirsi in via esclusiva della scena culturale e politica. Insomma trattasi, come amo dire io, di “sardi che parlano solo di Sardegna con (per lo più) altri sardi”: che noia mortale!! Ho vissuto per sei anni in Veneto, nota roccaforte leghista, ma vi assicuro che il clima culturale imperante non era certo questo: certo si parlava, e molto anche, dell’essere veneti, di cultura veneta, di autonomia locale e via dicendo, ma i vari centri di produzione culturale, teatri, associazioni, eccetera, così come diversi poltici del posto, non si occupavano certamente solo di questo. Tre esempi per tutti: la compagnia padovana “Teatrocontinuo” del compianto Nin Scolari, che tra le altre cose si è occupato della reinterpretazione in chiave teatrale del mondo antico; lo straordinario Centro culturale Candiani di Mestre (e dico Mestre, eh, non Venezia), che svolge attività le più varie, dal teatro alla musica al cinema, e che ha invitato negli anni personaggi del calibro di Derrick de Kerckove; e il mitico CUC, il Centro Universitario di Cinematografia di Padova, il primo nato in Italia (1946), che da quarant’anni organizza e propone splendide rassegne in collaborazione con i cinema d’essai della città. Per non parlare delle ricerche e delle opere dei docenti patavini che insegnano le materie oggetto del mio corso di studi (Lettere Classiche): come Lorenzo Braccesi, ordinario di Storia Greca, che non si è certo occupato – per dire – solo di grecità adriatica, ma ha indirizzato il suo sguardo innanzitutto in direzione dell’Italia meridionale, dell’Europa continentale e dell’Egeo.

  9. Alessandra says:

    e , quindi, cosa facciamo?

  10. G.F.T. says:

    Sottoscrivo appassionatamente quanto afferma Mossad:
    “Io aggiungerei che se vogliamo rifondare il dibattito culturale in Sardegna dobbiamo cominciare a pensare un po’ di meno alla Sardegna e più al resto del mondo. Vorrei vedere venir fuori un intellettuale, uno scrittore, uno storico che non mettesse la Sardegna al centro del suo punto di osservazione”.

  11. Alessandro Mongili says:

    Interessantissima questa riflessione, a parte l’accusa di conformismo pro-soriano mentre invece, come tutti ricordiamo, Soru dai media è stato massacrato oltre ogni ragionevole limite.
    Vorrei provare però a capire come mai succede questo, e la mia curiosità si appunta verso il continuum che si crea fra giornalisti e intellettuali, perché di questo si tratta. Un continuum che mi sembra simile a quello che si è creato altrove. Come si sa, i giornalisti fanno, come qualsiasi altra persona, un lavoro di routine, per cui hanno le loro liste (anche mentali) di persone che intervistano (si potrebbe fare un gioco a prevederle e si sbaglierebbe di poco), i curatori delle pagine culturali dei giornali hanno i loro riferimenti: così se si parla di scienza tizio, di arte un altro, di identità un altro ancora, ecc. Raramente i giornalisti sono in grado di rivolgersi a figure meno in vista ma che hanno cose veramente nuove da dire. Quando ne scoprono una (di figure nuove) la inseriscono nelle liste e la “figura nuova” diventa velocemente parte della routine e la sua presenza diventa prevedibile. In questo, Michela Murgia non è diversa da Manlio Brigaglia, è solo arrivata da poco a fare l’intellettualeufficiale. La particolarità sarda (a parte la noia) è che queste routine sono ormai eterodirette, come all’Ugnone-Pravda, o dominate dalla paura e dall’incapacità di cambiare, come alla Nuova. Tuttavia, anche Radiopress o sardegnademocratica.it sono in questo meccanismo, del quale non ci si deve meravigliare perché rappresenta la normalità di un lavoro che è molto più routiniero e ripetitivo di quanto non si vorrebbe far credere per autoconvincersi di fare un lavoro speciale o per rispondere alle aspettative ziesche del tipo “as biu a nebodi miu in s’Ugnoni?”. Il cambiamento, come al solito, può provenire solo da voci nuove, da routine nuove, è difficile alle soglie della pensione. In questo, anche io credo che dal mondo sardista e indipendentista possano sicuramente nascere nuovi punti di vista, ma le routine e i comportamenti che sinora hanno messo in campo sono fotocopie di quelli dominanti, caratterizzate da chiusura, ansia di perdere il controllo e di “non metterci il cappello”, chiusura reciproca anche all’interno del loro mondo fra le varie cunfrarias. Quando leggo “Eja” mi viene da piangere per il loro mondo da Parco a tema Irsolandia (anzi diversi parchi a tema in concorrenza: Irsolandia, Progreslandia, Comitaduprosalinmbasardalandia – detto anche Supopulusardulandia -, Archeolandia & co.). Sono i veri eredi dello spirito settario anni ’70, più conformisti dei conformi. Però magari cambiano, almeno loro, sotto il peso della necessità.
    Il vero problema è cambiare l’agenda dei media locale. Al-Jazeera c’è riuscita a livello globale, ma qui nessuno osa e al limite la loro vecchiarda e cinica immaginazione si immagina una Ugnone sotto il loro controllo, non altro rispetto all’Ugnone.

    • Marco Anedda says:

      Il solito pro-soriano fuori tempo… Mongili si dedichi più alle sue ricerche universitare che ai sermoncini politici in salsa “sanlurese”. E’ per merito di una certa finta intellighenzia da Lei ben rappresentata che la sinistra non supera quell’aria malsana da puzza sotto il naso.

      • Alessandro Mongili says:

        Grazie, eseguirò immantinente

      • Marco Anedda says:

        Bastava dicesse “Subito” …
        Vede che proprio Le piace lodarsi da Intellettuale. Essere incomprensibile come quella larga fetta di sinistra a cui appartiene.
        Mi creda: è più vicino a Vittorio Sgarbi lei che ad un operaio o uno studente.
        Peccato sia ancora privo di noterietà il suo impegno…
        Su… può farcela.
        Lasci perdere però l’onanismo sociologico. Potrebbe diventare cieco. E poi da ciechi certe cose non si vedono più…

      • Neo Anderthal says:

        Anedda: per favore, basta con queste caricature della Sinistra. Il Prof. Mongili la irrita?
        Può succedere, a volte le posizioni nette risultano fastidiose. In ogni caso credo proprio che il Prof. Mongili non si ponga il problema di rappresentare la “sinistra” -che tanto la annoia- ma se stesso e le proprie opinioni -con cui peraltro dissento il più delle volte-.
        Lei non muove una sola critica a quanto suggerisce e afferma Mongili, ma la butta in ridicolo, senza peraltro riuscire bene nell’intento. Cosa c’entrano Sgarbi e Onan -e la cecità poi…-? Non faccia finta di non comprendere i paroloni come “immantinente”, oppure si attrezzi a capire, oppure comunque faccia come crede, continui pure a martellare con stereotipi da Bagaglino. Se quello è il suo divertimento.

      • Marco Anedda says:

        Torni pure al suo Paleolitico politco Neo Anderthal…
        Le manca proprio una putna di irionia a Lei…
        Il ridicolo è tutto suo se si erge ad avvocato difensore del signor Mongili… Di cui , mi permetta di farle osservare, non v’è alcuna posizione forte o “netta”. Semmai, allineamento puro e duro.
        In quanto al merito: nulla da rilevare in questo caso sul Post di Biolchini, mi trova pienamente d’accordo. Avrà letto (ma non confido molto nella sua attenzione) che in altri casi ho scritto e sviscerato la mia contrarietà sui contenuti…
        Non mi pongo dunque il problema di essere divertito o divertente… Sono semplicemente libero. Tutto qui. Un dono che forse a Lei manca.

      • Mossad says:

        liberi, belli, ribelli…

      • Neo Anderthal says:

        Rimarco: non un solo appunto appena significativo su quanto scrive Mongili
        Solo una stanca tiritera, senza una “putna” di reale ironia, sulla “solita sinistra radical chic” e via dicendo, con l’intimazione “si occupi delle sue ricerche” e un riferimento un pochino scostumato. Non sono per niente un avvocato difensore di Mongili -che si difende benissimo da solo- e infatti non è questo il punto.
        Il punto è che non credo che intervenire per criticare non gli argomenti e neppure lo stile, ma la -presunta- appartenenza politico/antropologica dell’interlocutore non faccia muovere nessun passo al nostro civile dibattito: “quella larga fetta di sinistra a cui appartiene”… “una certa finta intellighenzia da Lei ben rappresentata che la sinistra non supera quell’aria malsana da puzza sotto il naso”.
        Aspetto le sue prossime chiose agli interventi di altri. Utilizzerà la macchietta della “zecca” da centro sociale con kefiah al collo? Rispolvererà il trinariciuto di Guareschi?
        Si può benissimo scegliere di non essere seri, nel tentativo di essere ironici. Quanto a riuscirci, quella è un’altra storia.

      • Marco Anedda says:

        Neo Anderthal…
        è ormai veritiero il dato, ahimè preoccupante, che la sinistra, quella di scuola ex Pci, sia diventata un indomita arena di placidi democristiani (o democratici) come Lei…. Forse lei non sa neppure cos’è un centro sociale, perso nei salotti buoni degli intelletuali con le dita incremate. Forse, nel Paleolitico da cui lei ci parla, non ve n’era alcuna traccia di centri di aggregazione operaia e proletaria. Rispolveri Lei, piuttosto, il Capitale, le Lettere dal Carcere di Gramsci, Destra e sinistra di Bobbio… magari ci troverà anche un breviario su cosa significa essere intelletuali militanti.

      • Alessandro Mongili says:

        Senta, Marco Anedda, ma qual è il punto della sua critica? A parte il fatto che sarei post tutto (soriano, comunista e compagnia cantante), che mi masturbo e che da un lato dovrei tornare alle mie ricerche e dall’altro non fare la sociologia (che è l’unica cosa che mi piace). Qualcosa di meno personale che si possa discutere sul blog di Biolchini no?
        In ogni caso per conoscere le mie posizioni sul comunismo le consiglio una biografia di Stalin che ho scritto da ragazzo e da precario. E’ pubblicata anche in italiano e la vendono ormai, ahimé, a stracu baratu su internet. Il titolo è “Stalin e l’impero sovietico” e l’editore è Giunti. Avrà delle belle sorprese e capirà che non vengo certo dalla vecchia scuola del PCI.

      • Neo Anderthal says:

        Comincio a credere, gentile M. Anedda, che lei abbia davvero delle difficoltà, che le impediscono di intendere sia i paroloni -quelli che a lei appaiono tali- sia ciò che scrivono i malcapitati interlocutori.
        La mia osservazione riguardava chiaramente la sua -e di altri- attitudine a non discutere di nessuna opinione in nessun particolare ma di introdurre delle presunte critiche, perlopiù sotto forma di caricatura/stereotipo.
        Caricature e macchiette sono quelle che lei abbozza per un ipotetico Massimo Zedda “borghesotto”-da lei bersagliato in qualche commento a post precedenti-, per un altrettanto ipotetico A. Mongili “con l’aria malsana da puzza sotto il naso”.
        A questo proposito le suggerivo ancora altre macchiette “di sinistra” per rinnovare un repertorio che mi pare esaurirsi nella ripetizione. E proprio per questo il riferimento ai centri sociali e ai loro frequentatori è condotto con i termini stereotipi e offensivi usati dai più strenui antipatizzanti, tra i quali la arruolo di mia iniziativa.
        Lei, con perseveranza degna di altri e migliori obiettivi, però insiste.
        Mi inserisce in un presente democristiano che non è il mio e in una scuola PCI che non ho frequentato, in uno schieramento democratico che è mio -e che quindi è contro Berlusconi e le sue alleanze ed articolazioni territoriali, Fantola compreso- ma certo NON nel senso di una appartenenza al PD-. Mi fa grazia della qualifica di intellettuale, ma mi dà disperso in luoghi, immaginari e mitici, che non frequento: “nei salotti buoni degli intelletuali con le dita incremate” -talmente impegnati con gli unguenti da smarrire tra i morbidi sofà anche una T-, che ovviamente sprezzano i “centri di aggregazione proletaria”.
        Non credo, e non mi pare, che lei abbia davvero inteso il contenuto della potente bibliografia che scomoda per le sue non-tesi e per argomenti in fondo così futili. Mi pare il solito escamotage di chi non ha mai digerito la sinistra per come essa è, e ha sempre scelto altrimenti, rimpiangendo e rinfacciando un modello ipotetico che o non conosce o avversava all’epoca.
        In ogni caso non ambisco a essere considerato intellettuale e meno che mai “militante”, e non leggo sunti né breviari, che lascio volentieri agli appassionati delle messe cantate, ai cultori del Canto Gregoriniano che guida alla luce i Fantoliani di Sinistra, tra i quali la iscrivo arbitrariamente.

        (Mi chiedo -da solo- perché mi infliggo la pena di replicarle, dal momento che dispero nella sua comprensione. E -sempre da me- mi rispondo: per puro svago e per solipsismo. Veda, amico Anedda/Burdisso, esistono modi di dire meno scostumati di quello che lei suole preferire, per accusare gli altri -anche se in questo caso io accuso me stesso- di essere eccessivamente autoriferiti…)

      • indovina un po' says:

        Scoop! Neo Anderthal e Alessandro Mongili sono la stessa persona.

      • Marco Anedda says:

        Quanto tempo sprecato per una risposta così lunga e larga caro, pregiatissimo, Neo Anderthal.
        Davvero mi ossequiano le sue ore messe a disposizione, la sua sconfinata dedizione a replicare alle mie non-tesi.
        Tuttavia, mi rammarico nel dirle che, di quanto Lei articola così minuziosamente tra le sue magnificenze linguistiche, nulla, in realtà, ci è dato capire. Ma si sa, l’urgenza dell’essere chiari, fluidi e accessibili ai tanti non appartiene affatto alla “narrazione culturale” dell’antiberlusconismo democratico.
        Per la serie: ce la cantiamo e ce la suoniamo tutta in casa. Se poi non ci afferrano, mica è nostro il problema! Le suggerisco, quindi, in tono preoccupato per Lei: esca fuori, tra le strade, dentro i pullman, in fila alle poste, tra gli operai che gridano in via Roma a Cagliari, nelle mense della Caritas, nelle periferie di Is Mirrionis, nei distretti industriali di Macchiadeddu, o negli ovili di Orune, o nelle discariche di Quirra, tra i corridoi degli ospedali… il mondo è altrove Neo Anderthal…non nel non senso delle sue parole. Qualcosa le sfugge. E non certo una T (come nel mio caso), comodamente adagiata nei morbidi sofà del salotto intellettuale di casa sua. Sa, il nodo è davvero un altro: a Lei le sfugge proprio il mondo. E quel che è peggio: è che non se ne rende più conto.
        Le auguro, liquidandola cortesemente, ogni sana soddisfazione nel divertire la sua quotidianità lontano dalla realtà.

        Ps: però… mi aspettavo più celerità nello scrivere da uno come Lei.

      • Sbaglia un bel po' says:

        Non sono Mongili. Ma tu sei sempre Anedda/Burdisso.

      • Neo Anderthal says:

        “nulla, in realtà, ci è dato capire.”
        Infatti.

        “Le suggerisco, quindi, in tono preoccupato per Lei: esca fuori, tra le strade, dentro i pullman, in fila alle poste, tra gli operai che gridano in via Roma a Cagliari, nelle mense della Caritas, nelle periferie di Is Mirrionis, nei distretti industriali di Macchiadeddu, o negli ovili di Orune, o nelle discariche di Quirra, tra i corridoi degli ospedali… il mondo è altrove Neo Anderthal…non nel non senso delle sue parole.”

        L’unica cosa vera è che non frequento ovili, né veri e propri e neppure metaforici e nemmeno mense della Caritas -poiché faccio volontariato altrove, e per fortuna non mi occorre personalmente servirmene-
        Ma la prego, amico Anedda, non si preoccupi per me, anche io stento a capirla: per esempio come può una arena essere indomita?
        Pensi, non ho altro da fare -oltre a passarmi cremine sulle mani steso sul sofà con gli amici debosciati- che interrogarmi sul senso recondito delle sue parole, e me lo chiedo da giorni, “indomita arena” -di placidi democristiani-, ma cosa vuol dire? Mah.
        Eppure, pur essendo un nullafacente, ho tardato a replicare. Me ne scuso, so che lei punta la sveglia sui miei post.

    • Antonio Gramsci says:

      Per molti essere «originali» significa solo capovolgere i luoghi comuni dominanti in una certa epoca: per molti questo esercizio è il massimo dell’eleganza e dello snobismo intellettuale e morale. Ma il luogo comune rimane sempre un luogo comune, una banalità. Forse il luogo comune rovesciato è ancora più banale del semplice luogo comune. Il Bohémien è più filisteo del mercante di campagna. Da ciò quel senso di noia che viene col frequentare certi circoli che credono essere di eccezione, che si pongono come una aristocrazia distaccata dal vivere solito. Il democratico è stucchevole, ma quanto più stucchevole il sedicente reazionario che esalta il boia, e magari i roghi.

      • gentarrubia says:

        antoni! concordo sull’impiato generale, ma mi è sfuggito il senso di questa parte: “il sedicente reazionario che esalta il boia”
        cioè? chi dice di essere reazionario senza esserlo, ma esalta il boia e quindi è reazionario?

  12. Caro Vito, il tuo post mi ha fatto venire in mente una vecchia vignetta di Altan. Un giornalista che chiede all’intelletttuale: Che cosa ha da dire a proposito? E l’altro che risponde: Boh!
    Mi sembra che da tempo assistiamo non tanto al silenzio degli intellettuali perchè silenziati dal potere o dalla stampa (il piu delle volte coincidono), quanto piuttosto perche gli intellettuali stessi o sono pavidi o non hanno nulla da dire. Rimango sconcertato, seppure mi rafforzi nella mia convinzione, pre quanto sostiene poco sotto Gianni Campus. Da assessore comunale passerà alla storia per la sua debolezza. Il suo agire politico è contrassegnato dal vorrei ma non posso: betile, campus universitario, sant’elia … alla contrarietà della sua maggioranza e al nulla sotto vuoto spinto del suo sindaco, Campus ha contrapposto uno splendido silente boh! In questo anche lui ha contribuito al mitridatismo cagliaritano, anche lui è stato campione di cazzeggio contribuendo allo sterile palleggio delle responsabilità amministrative che hanno portato al meglio niente di oggi.

  13. Carlo A. Borghi says:

    Concordo su tutta la linea biolchina. E’ una linea d’ombra. Mi avvito con Vito e punto lo stesso dito. Per di più, ieri alle ore 13, l’edizione sraordinaria del tg3 dedicata ai movimenti di guerra in Libia è stata interrotta per mandare in onda un filmato intitolato “Boghes” e firmato da Antonio Roich, giornalista pensionato della sede regionale rai. E’ una Sardegna che si distingue per una abissale e diffusa mediocrità incartata fra le pagine a stampa e i canali radio/televisivi.

  14. Quando si vincolano come beni culturali anche i paracarri, vuol dire che non si vuole proteggere (e meno che mai promuovere) alcunché.
    Quando tutto è cultura, siamo perduti. Anzi, è perduta la cultura, se mai ne esista una degna di questo nome.
    L’esercizio prevalente è quello dell’esercismo, o del mitridatismo: piccole dosi quotidiane di merda, e pian pianino ci si abitua.
    Credo che gravissime responsabilità incombano sugli intellettuali, che sono quelli che lavorano coll’intelletto, e che di quello dovrebbero campare, producendo beni e servizi di ragionevole valore. Tale responsabilità è aumentata dall’indubbia crescita della scolarizzazione, ancorchè forzata: almeno teoricamente, i consumatori di prodotti dell’intelletto dovrebbero essere aumentati a loro volta, garantendo spazio e mercato agli intellettuali. Peraltro, non mi si racconti la balla della mancanza di libertà d’espressione: in altri tempi (o in altri Paesi), si sarebbe ululato di gioia per lo spazio attualmente concesso a tutti.
    La triste verità è che questo spazio è in larga misura – quasi totalmente – occupato da accaniti cazzeggiatori, il cui intelletto sforna bensì beni e servizi immateriali, ma appropriatamente aderenti – per contenuto e qualità – alla parte anatomica che ispira tale produzione.
    E non mi si venga a dire che – con buona pace di Gaber – il cazzeggio è di destra piuttosto che di sinistra: esso è elegantemente e democraticamente oggetto di trattazione universale.
    Gli intellettuali “veri”, in altri momenti della nostra storia, si assumevano responsabilità “vere”, sia che progettassero la Casa del Fascio di Como, ancora oggi una delle cose più straordinarie della nostra architettura, sia che scrivessero e diffondessero il Manifesto di Ventotene, uno dei progetti intellettuali, politici e culturali di maggiore rilevanza per la nostra malcapitata Patria.
    E, guarda caso, nessuno di quegli intellettuali o di quelle opere erano provinciali: essi, infatti erano europei a pieno titolo, perchè non si limitavano a nascondersi in questo “luogo culturale”, ma contribuivano autorevolmente a scriverne le regole.

    • Massimo says:

      E, di grazia, in che cosa l’arch. Campus ha dato prova della sua “cultura”? Forse nella mostra fotografica celebrativa che le ha dedicato il T-Hotel? Peraltro quelle foto sono compagne di quelle già viste in interventi pilateschi in vari convegni sul futuro urbanistico della città nei quali, peraltro, è mancata da parte dello stesso arch. Campus qualsiasi proposta, la cui mancanza è stata addebitata alla sua “tecnicità”. Meglio la cultura della protezione del paracarro che quella del prostrarsi al mattone sempre e comunque.

      • Per quanto mi riguarda, non credo di dover “dare prova di cultura” più di quanto lo debba fare qualunque cittadino ragionevolmente esercitante i propri diritti e doveri.
        Sono, per la professione che faccio o ho fatto (architetto, universitario etc.), uno che ha vissuto e che vive della sua produzione intellettuale, buona o cattiva che sia. Sono quindi un intellettuale di mestiere, ma non per questo, automaticamente, un buon intellettuale. Ho fatto cose, ho visto gente, ho insegnato e progettato. Bene o male, dopo quarant’anni di questa vita non credo di poter riassumere tutto (sempre nel bene e nel male) in una riga, anche se la domanda “che cosa ha fatto?” mi sembra perfettamente legittima. Solo che non c’entra niente con quello che ho cercato di dire: non sono così autoreferenziale.
        La qualità della cultura è una cosa, l’essere intellettuale è un’altra. Ciò non toglie che gli intellettuali abbiano responsabilità da intellettuali, e che tali debbano dimostrarsi.
        A questo proposito, se faccio una mostra di fotografia al T-Hotel, come gentilmente evocato da Massimo (che vedo averne tratto giovamento, evocando corrispondenze stilistiche con altre mie comunicazioni) cerco semplicemente di rapportarmi con altri “cittadini”, non necessariamente addetti alle mie stesse attività, sul tema “fotografia”, e non altro. Se questo è un male, non saprei dire; certo non è fatto per interesse “politico”, come è certo che quelle foto non sono “ideologiche”, anche se fossero proposte con rilevanza “intellettuale”.
        Sono un assessore “tecnico” nel senso che non sono stato votato ed eletto, ma ciò non vuol dire che dalla mia attività non sia riscontrabile un senso politico, del quale – ovviamente – mi rendo responsabile.
        Se devo dire la mia politicamente, in genere lo faccio con le parole, talvolta con i fatti, qualche volta con le immagini. Le foto del T-Hotel, semplicemente, non erano “politiche”, ma questo non vuol dire che fossero “pilatesche”; semplicemente, non c’entravano nulla con la politica. Altre mie foto, in altri contesti, hanno semplicemente voluto raccontare situazioni da me raccolte in varie parti del mondo, testimonianti valutazioni da me espresse a voce in modo anche “politico”. Erano altre foto, come ho detto, ma potevano anche essere le stesse, in contesti diversi.
        Vorrei dire però, se la cosa non dovesse sembrare “pilatesca”, che sono abbastanza intellettuale da poter dimostrare, senza tema di smentita, che con le foto si può facilmente (sempre a saperlo fare) trasformare la merda in arte, e l’arte in merda.
        Lo stesso si può fare con le parole: a qualcuno riesce meglio che ad altri.

  15. Nicola says:

    Senza aver letto ne il saggio della Murgia e ne l’articolo della Nuova avanzo comunque un commento. Penso che il punto non sono solo i due quotidiani o l’esile disponibilità di mezzi d’informazione, che comunque è un problema oggettivo e che restringe ogni spazio. C’é anche una irriducibile tentazione, molto marcata nella nostra città, di fare cultura per pochi. I “circoli” culturali, nei vari campi d’intervento, non si pongono ne l’obiettivo della divulgazione ne quello del pieno e costante coinvolgimento di fasce più ampie. Prevale ancora, purtroppo, la logica del “circolo” – se con un raggio stretto è meglio – e che l’allargare oltre i pochi è compromettente e corrompe i contenuti. La pubblicazione su un giornale è un riflesso del dibattito culturale ma non è il dibattito che deve vivere – per vivere – in altri luoghi e in altre forme. Proprio perchè i media operano il restringimento oggettivo di cui scrive Vito occorre trovare un’altra dimensione, necessariamente più aperta. Non mi spingo a pensare che occorre superare un carattere “elitario” del fare cultura ma un tratto da cancellare è che fare cultura è un qualcosa che serve a se e non agli altri. Fare cultura per se, oltre una dimensione minimamente collettiva, spegne la capacità di propagazione e senza il contagio nella società la cultura non produce alcun cambiamento, neanche nella discussione e viene meno a uno dei fini propri: quello di restituire alla società un pensiero capace di leggere i fenomeni oltre il conformismo. Per superare un silenzio imposto dall’oscuramento dei media serve il fracasso, serve magari qualche provocazione, serve magari imporre un fatto che i media non potranno ignorare, serve allargare il raggio di quei “circoli”. Magari anche rischiando che dentro quei “circoli” compaiano facce nuove, che sono però orecchie e voce utili alla miglior propagazione dei contenuti. Qualcuno magari pensa che la cultura non è mai un fatto di massa ma comunque gli stessi giornali sono letti da minoranze, non sempre per ragioni coincidenti alla ricerca dei contenuti culturali ma per un mero interesse informativo. Le soluzioni da se non vengono, che se ne parli è un buon segno.

  16. Neo Anderthal says:

    -piccola nota senza importanza-
    Mi pice l’osservazione che Elio Athemalle e Vito B. fanno, purtroppo spesso, sulla pigrizia di certi giornali e giornalisti. L’appunto è mosso a quei tic lessicali, quei “memi”, che infestano le pagine e i titoli.
    Espressioni seriali come “Mirino”, “Rivolta dei…” “ed è Bufera”, “Morte annunciata”, per lo più adoperate o inserite “ad mentulam”.
    Mi pare il caso anche di una scemenza/ossimoro come “silenzio assordante”, che se mai ha avuto senso o ha destato attenzione ormai fa lo stesso effetto molesto delle insegne dei pizzicagnoli, che per darsi un tono “à la page” battezzano la bottega con qualche pretenzioso “Non solo Formaggio”.
    Urgono prescrizioni e relative multe da comminare ai neghittosi.

  17. Il sistema per fare un nuovo spazio di comunicazione, se non c’è, lo si inventa, come è successo in altre minoranze internazionali.
    Se la politica territoriale fosse seriamente intenzionata a finanziare un progetto simile di adeguamento e risalto dell’intellettualità sarda, quale miglior strumento potrebbe trovare da finanziare se non un progetto editoriale incentrato sul bilinguismo?
    Il Comitadu pro sa Limba Sarda propose per la finanziaria 2010 di trovare 5 milioni di euro per interventi in campo linguistico. Maninchedda vorrebbe fare un quotidiano, io anni fa pensai di fare uno spazio di comunicazione indipendentista riformista, ma quando non si hanno le liquidità e “gli amici degli amici” si rimane nell’anonimato rispetto al grande pubblico.
    Mi domando tuttavia se il Comitadu ed i Sardisti abbiano tentato di venirsi incontro per valutare un capitolo di spesa al riguardo. Perché se non si uniscono gli elementi che ci sono in campo, le lamentele rimangono sospese su un piano astratto senza condurre mai a qualcosa di pratico.

    Io penso che le forze sardiste oggi presenti in maggioranza ed opposizione dovrebbero domandarsi fino a che punto è lecito lamentarsi dimenticandosi però di agire sulle leve che possono essere fatte proprie, e non solo politicamente, ma anche nell’interesse di un pluralismo dell’informazione (e della cultura).

  18. Ciao Vito, mi piace questa tua riflessione. Davvero. E sono convinto che non avrà molti commenti: perché hai toccato un tema alto scrivendo cose impegnative e scomode. Servono mai come ora nuovi media in Sardegna e serve costruire, dando spazio a chi merita e non ne ha, una nuova e più fresca classe dirigente politica, culturale e di impresa. In sintesi, credo che la società sarda tutta sia piombata da un pezzo in una crisi profondissima. Quanto alla prima domanda di Michela, che so essere fervente indipendentista, e’ vero che l’autonomismo e’ da un pezzo sterile ma non sono convinto che, in tempi di federalismo iposolidale l’unica via sia quella indipendentista. E’ che per riscrivere il contratto sociale tra il popolo sardo e quello italiano ci vogliono appunto i due contraenti. Che palesemente mancano all’appello. Oltre la retorica delle bamdiere, con tre colori o con quattro mori, non mi sembra ci sia molto altro. Saluti.

    • Mossad says:

      Io aggiungerei che se vogliamo rifondare il dibattito culturale in Sardegna dobbiamo cominciare a pensare un po’ di meno alla Sardegna e più al resto del mondo. Vorrei vedere venir fuori un intellettuale, uno scrittore, uno storico che non mettesse la Sardegna al centro del suo punto di osservazione.
      E già che ci siamo comincerei a dire che, ad esempio, la storia della Sardegna è soprattutto una storia “urbana”, che gli ultimi 100-150 anni hanno creato una sovrastruttura inesistente di un’isola “resistente”, orgogliosa, diversa, speciale, ecc. ecc. Quando purtroppo quel mito è appunto un mito e basta (o quasi), i cui involontari artefici sono stati la visine deleddiana da cartolina di una Sardegna povera e dolente; la teoria di Wagner secondo il quale la vera Sardegna è quella dell’interno, delle montagne; il mito della resistenziale sarda di Lilliu.
      Tutti personaggi importanti, grandi, da rispettare, ma che loro malgrado hanno contribuito a veicolare un certo tipo di visione intellettuale che poi ha prodotto qui da noi “Sardegna Canta” e poco altro.
      Ecco, se vogliamo davvero ricostruire un dibattito intellettuale sulla nostra isola (che finora non ha prodotto granché, a parte poche eccezioni), dovremmo forse ripartire da qualcosa del genere.

      • Mossad says:

        Per storia urbana intendevo dire più che altro storia culturale, giacché ogni luogo ha la sua storia, piccola o grande, bella o brutta. Ma le poche cose venute fuori dalla nostra storia degli ultimi 2500 anni è venuta dalle (poche) città.

      • Alessandro Mongili says:

        Certo, forse non hai tutti i torti, però a me pare che il limite maggiore della vita culturale sarda (che almeno a me come fruitore la rende noiosa) sia quest’ansia imitativa che la percorre. E’ come se tutti dovessero mettersi una maschera ed è come se tutti dovessero cercarsi ascendenze altrove, costringendo chi non lo fa a monumentalizzare un po’ troppo la propria sardità. Ora, la cultura vera e creativa consiste nella necessità di scrivere, di recitare, di esprimersi, e in questo è eversiva e si oppone pericolosamente all’attitudine scolastica. Qui invece quasi sempre prevale l’attitudine scolastica e imitativa, il duetto cultura alta (di importazione)/folklore-o-come-vuoi-chiamarlo (locale). Mai che uno vada a sentire quello o quella o a leggerne i libri con la stessa ansia con cui apro i libri di Dostoevskij, o di Bolaño per dire, con la sensazione di rimettermi in gioco con chi, un Artista, si è messo totalmente in gioco.

      • Mossad says:

        Si, effettivamente è un altro grande tema che non va trascurato. Niente male la mwtafora delle maschere, azzeccatissima particolarmente a Cagliari

  19. Altro che irrisione, che pure nei fatti c’è. Siamo di fronte alla mistificazione e al nascondimento che accomuna i due quotidiani, protervamente decisi a non conoscere la realtà che deborda dalle loro ottiche di pochissimi gradi. Si è mai letto che in venti anni sono usciti in Sardegna più di duecento romanzi e racconti lunghi in sardo? C’è un corpus, quantitativamente importante (fatto naturalmente di cose eccellenti e altre assai meno buone, come capita in tutte le letterature), che comincia a costituire un nucleo di letteratura nazionale. Se ne parla in decine di incontri e dibattiti che, non arrivando alle orecchie sorde, si trasformano però nel non accaduto. Un fatto che non approda sulla stampa non è mai successo.
    E su questo “non accaduto” è inevitabile si possano costruire titoli come quello che tu censuri. E’ indubbio che ci sia in Sardegna una crescita delle istanze indipendentiste (frantumate, spesso contraddittorie e venate di fondamentalismi che le limitano). Da che cosa nascono queste istanze se non da un lento e continuo dibattito di idee fra intellettuali? Neppure è segreto, visto che ne sono pieni forum, blog, siti, volantini, clips su YouTube, interventi in Facebook. Il fatto che di tutto questo non si parla nei media restringe la conoscenza ai partecipanti ai dibattiti (di cui si parla solo quando scoppiano polemiche o quando avvengono happening eclatanti), salvo poi restare smarriti quando o crescono i consensi degli indipendentisti o, come è successo il 17 marzo, la celebrazione dell’Unità d’Italia è pochissimo partecipata, dal Consiglio regionale dove mancava un quarto dei consiglieri ai paesi. Nel mio, 6500 abitanti, c’erano, contate, 11 bandiere italiane esposte.
    Quanto al resto, concordo pienamente con il tuo articolo. E non mi capita spesso.

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