Giornalismo / Politica / Sardegna

Pastori sardi, dal web le analisi più interessanti: eccole

Degli scontri di ieri a Cagliari tra pastori e forze dell’ordine parlano tutti i giornali italiani. Abbondano le cronache, spesso ottime (come quella offerta dalla Nuova Sardegna) ma mancano drammaticamente le analisi, i commenti. Tace la Nuova, sfarfalla l’Unione Sarda (titolo dell’editoriale di oggi: “Il nuovo Patto di stabilità: ma la politica riuscirà ad essere virtuosa?”).
Per questo vi segnalo diversi contributi che arrivano dalla rete.
Primo fra tutti, quello dell’ex assessore alla Programmazione Francesco Pigliaru (“La rabbia dei pastori sardi e la politica inesistente”), poi quello del presidente della Commissione Bilancio Paolo Maninchedda (“L’assedio dei ribelli”).
Altri li aggiungerò man mano che arriveranno le segnalazioni. Abbiamo bisogno di idee e di farle circolare. Non di sola cronaca è fatta l’informazione.

L’analisi di Francesco Pigliaru:

 

L’analisi di Paolo Maninchedda
http://www.sardegnaeliberta.it/?p=2734



 

L’analisi di Antonello Gregorini del Forum Civico di Cagliari
http://forumcivico.blog.tiscali.it/2010/10/20/pastori-e-agricoltori-sardi/

Vi segnalo anche l’intervento di Emiliano Deiana:
http://www.facebook.com/notes/emiliano-deiana/la-politica-e-i-pastori-di-emiliano-deiana/446287049142

Il commento di Nicolò Migheli su Sardegna Democratica:
http://www.sardegnademocratica.it/index/economia/articolo/26541/i-pastori-non-sono-piu-simpatici-.html

Tags: , , , , ,

10 Comments

  1. Mongili, Emiliano Deiana, Biolchini…si vede che siete sardi…pitticus is barrosus!

  2. Stefano Deliperi says:

    non è mai stata fatta un’analisi approfondita sulla ricaduta delle enormi somme di fondi pubblici investite – per meglio dire, “spese” – a sostegno del settore agro-pastorale in Sardegna negli ultimi 30 anni. Basti pensare che i soli fondi Feoga presenti nel P.O.R. Sardegna 2000-2006 ammontano (vado a memoria) a circa 800-900 milioni di euro. I risultati sono sotto gli occhi di tutti, ma tuttora non si vuol capire che il settore in Sardegna manca di serie e radicali riforme necessarie per poter rimanere sui mercati internazionali e nazionali. In primo luogo le aziende dovrebbero consorziarsi e conferire almeno alcuni “segmenti” di attività (raccolta, distribuzione, commercializzazione, ecc.) al consorzio. Solo così avrebbero possibilità concrete di sviluppo. La piccola azienda da sola non va più da nessuna parte. “Regalare” a pioggia 15 mila euro ad azienda o 280 milioni di euro all’intero settore vuol dire, oggi, soltanto sprecare fondi pubblici. Avete idea – a puro titolo di esempio – quanti sono i produttori di latte e i caseifici aderenti al Consorzio produttori del Parmigiano Reggiano?
    Solo in seguito a una riorganizzazione del settore si può pensare all’integrazione del reddito di ogni azienda (agriturismo, produzione di energia, ecc.). Il prof. Pigliaru, già Assessore regionale della programmazione (e “regista” del P.O.R. Sardegna 2000-2006 per alcuni anni) dovrebbe saperne molto più di me in proposito.

  3. Franco Anedda says:

    La domanda di Vito: “Come si esce da questa situazione?” mi ha stimolato alcune riflessioni che riporto.

    Discutere sui torti serve solo ad aumentare la tensione, credo sia opportuno discutere sulle possibili soluzioni per una crisi che non riguarda solo la pastorizia ma tutto il nostro sistema economico.

    I soldi sono finiti, abbondano i debiti; questo è un dato di fatto sul quale possiamo essere tutti d’accordo.
    Gli aiuti ad attività improduttive che non stanno in piedi, in quanto non competitive con il mercato, ormai appartengono al passato per il motivo precedente.

    Una possibilità sarebbe modificare il mercato con una politica protezionistica od autarchica: la storia ha dimostrato che tale politica impoverisce ed isola chi la pratica.

    Se non si può cambiare il mercato si deve giocoforza cambiare prodotto in modo che sia richiesto dal mercato e remunerato. Come ottenere questo?

    Lucio Salis diceva. “Sembra facile ma non è difficile.” Provo a dire la mia.

    La produzione di latte e di carne si deve distinguere per qualità dalla produzione industriale del continente.

    Questo significa rinunciare all’utilizzo di mangime: gli erbivori devono pascolare, chi non ha pascolo non può fare il pastore.
    Questo significa rinunciare all’uso di farmaci, reso necessario da una alimentazione contro natura.
    Questo significa rinunciare a produrre tanto perché i contributi incentivano la quantità e non la qualità.

    In breve il prodotto sardo deve uniformarsi alle regole dell’agroalimentare biologico biodinamico.

    Al consumatore tedesco non interessa se il formaggio è sardo o rumeno, interessa COME è stato prodotto.

    Nel mondo ci saranno sempre i ricchi, questi vogliono prodotti di alta qualità e sono disponibili a pagarli quanto valgono.

    Chiunque fa prodotti di alta qualità non ha problemi di invenduto né ha necessità di farsi mantenere dalla collettività.

    La Sardegna, per le sue dimensioni non può competere con una produzione di massa come quella emiliano-romagnola la quale è parimenti in profonda crisi.

    Se si punta sulla quantità e non sulla qualità ci sarà sempre qualcuno che produce ad un prezzo inferiore: i Turchi sono pronti ad inondarci con latte di pecora a 30 centesimi il litro.

    La Sardegna deve dedicarsi ad una produzione di nicchia, di alta qualità, in sinergia con un turismo d’elite.

    Liberare la Sardegna da industrie inquinanti e fallimentari, bonificando il territorio e riconvertendolo al turismo, produrre cibo sano di alta qualità, questo credo possa essere la strada per “rinascere” finalmente e diventare autonomi.

    Altrimenti continueremo a mendicare aiuti, senza sapere neppure a chi chiederli.

    Qualcuno conosce altre possibilità?

    • il giullare says:

      in linea teorica ti do ragione, ma al lato pratico la cosa non è applicabile.
      E se è vero che (scrivevo in qualche altro post) in tanti nelle nostre bidde dicono ‘male che vada faccio il pastore’, è anche vero che nessun patore ha pascoli ‘suoi’.
      La nostra tradizione ovina prevede una ‘transumanza’ locale…col pastore che oggi porta le pecore nel terreno di tizio, domani in quello del demanio, dopodomani nella tanca di sempronio.
      Se il pastore avesse terreni suoi da far pascolare sarebbe agricoltore, non l’allevatore.
      Se il pastore potesse far a meno di mangimi e ‘integratori’ lo farebbe, ma d’inverno cosa mangiano le bestie?
      Per non parlare di medicine e ‘farmacologia’…abbiamo dimenticato QUANTO ci è voluto per la blue tongue?
      La realtà è che in tanti, nei paesi si ‘improvvisano’ pastori..chi per passarci il tempo libero, chi per disperazione, chi dopo la pensione. Persone il cui background culturale è sicuramente agropastorale, ma che ‘improvvisandosi rovina (involontariamente) chi invece vorrebbe fare l’imprenditore ovino.
      Sono d’accordo con una produzione ‘d’eccellenza’ del latte ovino e di una filiera del nostro latte…
      ma fatta con gente seria, pastori, si ma che si mettanoa studiare il mercato, la dimensione dell’investimento, il tempo di ritorno.
      E una Regione forte che avvalli, sostenga, promuova questa filiera…

  4. In natura niente é in stasi, neanche le nostre vite e il nostro lavoro.
    Se non prendiamo coscienza di questo saremo perdenti.
    La città, il territorio diventa “impresa” perché costretto a competere con gli altri territori.
    Si può non essere d’accordo sull’obbligo morale di non dover competere. E’ la base del misticismo e di tante dottrine spirituali.
    Però poi, come i mistici … bisogna accettare serenamente la miseria e il digiuno. Non mi pare che la maggior parte di noi sia pronta per questa scelta … anzi, vedo una gran voglia di consumare e godersela.

  5. larentu says:

    I cinquantenni diversificano le fonti di reddito, certo. L’orto, la vigna, qualche volta si va a caccia … O professore … scenda dalla cattedra e si faccia un giro nel sulcis, a ottana, a porto torres. Oppure vada ad oristano, nel sarrabus gerrei, a la maddalena o, ancora, a silius. La politica ha coltivato una autentica trasformazione antropologica del sardo elettore. Cantieri forestali, operai dei consorzi di bonifica, portantini precari della sanita, campagnoli antincendio, cococo della regione. Un veroe proprio esercito di flessibili del mercato del lavoro che forti delle esperienze dei propri padri hanno coltivato e ancora coltivano in seno la pia illusione che funzioni ancora come ha sempre funzionato. Ovvero che messo un piede dentro secondo modalità paramafiose, prima o poi ci si stabilizza definitivamente. In questo sport eccellono sia i politici, sia il sindacato nonchè tutta quella pletora di figuri che spadroneggiano nei vari enti collaterali alla politica regionale. Passiamo alla formazione (si fa per dire) professionale. Una bella disboscata l’ha data Renatino da Sanluri, che il Signore Iddio ce lo conservi in forze e in salute per le prossime regionali. Ora abbiamo di fronte la possibilità che venuta -in buona parte- meno quel tipo di formazione intervenga in sostituzione l’università. Del resto, in tempi di magra come questi per i bilanci delle università italiane è chiaro che da qualche altra parte occorra girarsi. Occorra procacciare denaro fresco e dove se non con la formazione continua, la formazione di livello così che anche il “cinquantenne può imparare a diversificare le fonti di reddito intorno al suo lavoro principale”? No caro professore dell’accade mica, no. L’università svolga il suo compito principale e non si trasformi i propri docenti in raddrizzatori di gambe dei cani. In europa, dove funziona, non organizzano formazione (a beneficio dei redditi dei formatori) ma prevedono un sistema sociale di supporto decisamente più complesso e anche più costoso. Non riconvertono pastori, manovali, minatori, operai addetti a impianti industriali la cui tecnologia può competere con quella in uso in india, pakistan e regioni periferiche del caucaso. Noi siamo un pò più indietro, la situazione è grave, gravissima, abbiamo bisogno di prepensionamenti (piuttosto che pestare acqua nel mortaio) e il più grosso investimento che la storia ricordi in scuola primaria, secondaria e università. Altrimenti restiamo all’accade mica

    • Francesco Pigliaru says:

      Vedo che mettendo le cose in fila la distanza non è poi molta. Certo che siamo molto più indietro e che ci vuole un enorme investimento in capitale umano (basta guardare i test Invalsi: Sardegna sempre in fondo alla classifica); certo che in molti casi ci vogliono prepensionamenti; e certo che in altri casi si può e si deve aiutare chi vuole rimanere nel mercato del lavoro per fare altro, e possibilmente bene. Un sacco di imprese pesanti hanno chiuso anche in altri paesi, e le istituzioni sono state in grado di gestire problemi enormi con ragionevolezza e capacità di inclusione.
      Detto questo, chi ha mai scritto che l’Università deve lanciarsi in questo mercato? E chi lo ha mai pensato? A pensar male non sempre ci si azzecca. E certo non aiuta a discutere seriamente problemi complicati come questo.

  6. Francesco Pigliaru says:

    Accade eccome, in un sacco di posti nel mondo. Ci vogliono istituzioni che funzionano, formazione di qualità e cosette così. E un cinquantenne può imparare a diversificare le fonti di reddito intorno al suo lavoro principale, per esempio, se quel lavoro non è più in grado di generare reddito. Eccetera. Non è mica accademia, questa: è l’Europa che funziona.

    • Bruno Ghiglieri says:

      Il modello nordeuropeo della “flexecurity” , a mio modesto avviso (non sono un economista, sono solo un giornalista), può essere applicato con efficacia esclusivamente in contesti sociali contrassegnati da un alto tasso di scolarizzazione, altrimenti potrebbe funzionare male (l’esempio del pastore cinquantenne riconvertito a parrucchiere e visagista è pittoresco ma efficace). La Sardegna non è la Scandinavia, e non me la sento nemmeno di aggiungere “purtroppo”, perché rifiuto per principio l’applicazione (ma forse dovrei scrivere trapianto forzato) di modelli estranei alla nostra cultura e alla nostra identità senza che ci sia un terreno pronto ad accoglierli. A parte il fatto che non riesco a provare stima per teorici della precarizzazione del lavoro (sia pure temperata da ammortizzatori e altri strumenti di welfare) come Pietro Ichino, questo genere di soluzioni parte dall’accettazione passiva del mercato globale. Ma propro qui sta il punto: non si vuole mettere in discussione un modello di economia aggressivo e ormai in fase di degenerazione. Oggi Vito Biolchini leggeva divertito e assertivo, durante la sua trasmissione mattutina, il messaggio di un ascoltatore che invocava più esperti di mercato globale per fronteggiare le situazioni di crisi. In realtà la soluzione ai problemi del settore agropastorale andrebbe ricercata proprio nella direzione opposta, e cioè nella riappropriazione di un modello – questo sì familiare, perché fondato su saperi condivisi – che è noto come sovranità alimentare. Dunque non l’accettazione dello status quo e l’affidarsi fiducioso alle dinamiche di un mercato che chissà perché si fa fatica a definire perverso, non l’assistenzialismo a pioggia che tampona solo l’emergenza e non risolve nulla, ma la costruzione di un “altro” mercato: equo ed ecologicamente sostenibile, capace di non mandare in soffitta i saperi tradizionali ma anzi di valorizzarli senza per questo rifiutare la modernità o farsi tentare dall’autarchia. Come ho già scritto altrove, esistono già, anche in Sardegna, imprenditori che senza chiedere aiuto a Mamma Regione si cimentano nella produzione e nella promozione di prodotti di eccellenza, nati da saperi tradizionali, con l’ambizione di non rinchiuderli in un mercato di nicchia. Evidentemente si può. Costa fatica e sacrificio, ma si può.

  7. larentu says:

    Sarà, ma per me accademica si legge accade mica. E Pigliaru, come al solito, si occupa di accade mica. Andate a leggere il suo articolo, dice che non bisogna aiutare il lavoro ma bisogna dare un sussidio al lavoratore per formarlo in attesa che trovi un “nuovo” lavoro. Pagherei io per vedere un pastore di 50 anni seduto ad un banco di una scuola di formazione professionale per riconvertirlo professionalmente. In effetti potrebbe smettere di tosare le pecore e fare un bel corso di parrucchiere e magari aggiungere un master per diventare un visagista. O Pigliaru … bai e croccarì.

Lascia un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.