Ambiente / Cagliari

Ci scrive Ilene Steingut: “A Cagliari troppi progetti architettonici scadenti, la vera sfida è quella della qualità”

platone

Cagliari, la città ideale (photo Olliera)

Il mio post dal titolo “Cagliari, tre domande su mattone e urbanistica alla sinistra che governa la città” ha stimolato un dibattito, alimentato dallo scrittore Giorgio Todde (“Lavori pubblici a Cagliari, gli insulti dei gorilla della rete non fermeranno le critiche”) e proseguito dall’ambientalista Stefano Deliperi (“Troppi favori ai costruttori, Cagliari è vittima di una speculazione edilizia strisciante, ottusa e distruttiva”). Oggi ha inviato al blog la sua riflessione anche l’amica Ilene Steingut, architetto e vicepresidente dell’InArch Sardegna, che ringrazio per il contributo. Il dibattito continua.

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Caro Vito,

vorrei rispondere non solo al tuo articolo sull’urbanistica del Comune di Cagliari ma anche alle recenti considerazioni di Giorgio Todde sulla realizzazione dei campetti sportivi e del ristorante sotto le mura orientali di Castello.

Per quanto riguarda la questione legata alla tempistica dell’adeguamento del puc al ppr, credo che la tua perplessità sia più che lecita. Auguro al nuovo assessore un fruttuoso e proficuo lavoro in questa direzione. Credo che sia importante sottolineare quanto è fondamentale, per pubblica amministrazione, progettisti, imprese e proprietari, operare con regole certe, non soggette ad interpretazioni fluttuanti, a seconda del funzionario di turno. Le regole dovrebbero essere scritte con la consapevolezza delle ricadute concrete e reali della loro applicazione, consapevolezza che spesso manca in chi scrive le (troppe) norme che vigono in Italia.

Per quanto riguarda le considerazioni di Todde sui campetti sportivi e il ristorante sotto le mura orientali di Castello, credo che si tratta di una questione che non si può ridurre, all’interno di una visione in bianco e nero, al fare o non fare determinati interventi.

Il non fare, fermando il tempo in una immagine fissata una volta per tutte, come vorrebbero alcuni, non è l’esatto opposto di quello che costituisce una città? La città non è, forse, formata dalle fitte interrelazioni tra le modificazioni che, nel corso del tempo, hanno risposto alle necessità delle comunità in un determinato periodo storico? Vogliamo interrompere questa imprescindibile evoluzione o la vogliamo gestire?

Il fare, dall’altro canto, non può consistere nel fare a tutti costi, qualunque cosa, senza criterio. La questione, secondo me, riguarda quindi “come” fare rispettando e valorizzando la nostra storia. Questa considerazione porta inevitabilmente ad una riflessione sulla “qualità” di quello che si fa, sulla qualità dei progetti che vengono di volta in volta proposti e realizzati.

Di fronte alla scarsissima qualità prodotta negli ultimi decenni, forse si può capire chi si iscrive al partito del non fare.

Quindi, meglio fare nulla che fare male?

Ma non si potrebbe cercare di fare bene?

Per fare bene credo che occorra prima di tutto capire che la qualità di un’opera, sia pubblica che privata, è il risultato di un intreccio di decisioni che riguardano la programmazione, la progettazione e la realizzazione e non, come vorrebbero molti burocrati, il susseguirsi lineare di una mera sommatoria di procedure autorizzative ormai sempre più complicate (e inefficaci).

In alcuni momenti cruciali di questo percorso, tecnici e funzionari, anche di diverse amministrazioni, sono chiamati a fornire pareri e nulla osta. Chi rilascia questi pareri? Chi sono i valutatori? Da chi sono formate le commissioni di gara che esaminano i progetti? Chi è in grado di determinare se un intervento è corretto e ben integrato con il contesto oppure anche solo “coerente con l’esistente” (vedi norme ppr)? Quali sono i loro profili e le loro competenze?

È necessario capire che la valutazione della qualità architettonica non si può basare su modelli statici o su dati quantitativi e che non può essere normata come il diametro di una tubazione idrica.

Non è facile valutare, sulla carta, la qualità di un progetto. Bisogna essere esperti, competenti, “allenati” nel leggere una pianta, una sezione o un prospetto per poter valutare la qualità spaziale di un intervento e i suoi rapporti con il contesto.

Di contro anche la categoria dei progettisti dovrebbe fare un esame di coscienza sulla qualità dei progetti che vengono elaborati, ma questo è un altro discorso.

Mi chiedo se non sia più efficace definire meglio i profili dei diversi soggetti, spesso con diverse competenze, che intervengono nel processo, garantendo l’autorevolezza dei valutatori. Sembra che l’Anac stia emanando, in attuazione della nuova legge sugli appalti (l’ennesima, ma speriamo che questa volta sia efficace), linee guida che si muovono in questa direzione, ma saranno sufficienti a garantire la qualità? A mio parere ci vorrà anche la volontà delle amministrazioni, in particolare, ad andare oltre il minimo comune denominatore della norma.

Per migliorare la qualità della filiera che porta alla realizzazione di un’opera di architettura è necessario che tutti i soggetti chiamati ad esprimersi su temi così delicati, siano indiscutibilmente qualificati nella progettazione architettonica e urbana, selezionati, per esempio, attraverso la qualità della loro produzione progettuale, il numero di concorsi vinti e di progetti pubblicati su riviste autorevoli di settore, etc.

D’altronde, ai liberi professionisti che vogliono lavorare per la pubblica amministrazione vengono richiesti questi requisiti. Ed è giusto che gli stessi requisiti e le stesse competenze siano garantiti da coloro che, all’interno o per conto della pubblica amministrazione, ricoprono ruoli cruciali nella selezione e nell’approvazione dei progetti che saranno realizzati.

Credo che su questi argomenti non sia più sufficiente indignarsi, quando il danno diventa ormai irrimediabile, e che non sia fruttuoso l’atteggiamento di chi, nel timore che vengano fatti altri errori propone, di fatto, il rifiuto di tutto ciò che è nuovo.

A questo riguardo, la sezione sarda dell’Istituto Nazionale di Architettura (InArch), associazione culturale fondata oltre cinquant’anni fa da Bruni Zevi, si propone di diventare un luogo di discussione sia su questo tema che su altri ad esso collegati.

Il primo appuntamento si terrà nel mese di ottobre. Chiediamo ai tuoi lettori di collegarsi nei prossimi giorni alla pagina facebook di InArch Sardegna per avere maggiori informazioni.

Ilene Steingut
Vicepresidente InArch Sardegna

 

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2 Comments

  1. antonio says:

    Penso che chi scrive debba dare l’esempio.
    Così non è stato, se non sbaglio.
    Saluti

  2. Credo che quanto scritto dall’Arch. Steingut sia sacrosanto. Purtroppo gli amministratori locali rinunciano volentieri a governare i progetti che danno volto alle nostre città (non solo rifare asfalti e sistemare piazzette) e scaricano sull’apparato burocratico decisioni che vanno ben oltre i poteri “gestionali”. Non è la legge che lo impone, sono loro che si nascondono, perché programmare, in urbanistica, significa prendersi responsabilità e metterci la faccia.

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