Politica / Sardegna

Il compagno Mannuzzu ci esorta alla lotta: “Difendiamo la Costituzione, la libertà non può rimanere solo un nome”

Salvatore Mannuzzu è un intellettuale che ha segnato la cultura sarda del secolo scorso e la letteratura isolana degli ultimi vent’anni. E’ stato tra gli animatori di Ichnusa, la mitica rivista fondata da Antonio Pigliaru; è stato deputato indipendente del Pci, è stato magistrato. Poi si è dedicato alla scrittura, regalandoci meravigliosi romanzi.

Mannuzzu è una di quelle voci che non ci si stanca mai di ascoltare. Sabato in piazza a Sassari, in occasione della manifestazione a difesa della Costituzione, l’attore Sante Maurizi ha letto un suo intervento. Ve lo ripropongo integralmente.

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Care amiche e cari amici, e care compagne e cari compagni – con il vocativo che da tanto tempo mi è entrato nel sangue, e il sangue non è acqua, è noto. Compatitemi se a voi mi rivolgo anche con questo vocativo.

Compatitemi se nel rivolgermi al pubblico in una piazza – immagino per l’ultima volta – rimango fedele a una storia che sento non solo mia ma ancora capace di vita, per tutti. Non è nostalgia; è il tentativo di assegnare un po’ di speranza a un futuro che io non vedrò.

Mi mortifica non essere con voi di persona: ma ai vecchi capita di cadere, tra le pareti della loro casa, in modo stupido e con conseguenze rovinose. Adesso ho difficoltà a spostarmi da una stanza all’altra: e un onesto silenzio – appunto di vecchio che ha fatto il suo tempo e cova con pudore i suoi guai – sarebbe forse il comportamento più decente. Ma le organizzatrici dell’iniziativa insistono per avere almeno una pagina scritta di adesione: e io ho stima di loro e credo nell’iniziativa. Che evoca un tema centrale per il bene del nostro paese e per il bene delle nostre singole esistenze. Si tratta della difesa della Costituzione repubblicana.

Insisto: della difesa; non, come in altre stagioni, di una sua celebrazione rituale (a torto rituale, mea culpa). Risulterebbe anacronistica, fuori dalla realtà delle cose, la mera ricognizione del sistema costituzionale positivo come di un assetto che abbiamo definitivamente raggiunto e che serenamente possediamo, senza contrasti: incombendoci solo il compito – arduo, certo – di adoperarlo, quell’assetto costituzionale, di incarnarlo nelle strategie concrete e nelle azioni politiche quotidiane. No: adesso la Costituzione repubblicana è minacciata, è aggredita nei suoi fondamenti. È molto imprudente non prenderne atto. Ed è imperdonabile non reagire: con tutti i possibili sforzi, di tutti – anche dei vecchi infortunati. Non merita indulgenza chi rimane latitante e contumace. Forse il nostro Paese non ha mai conosciuto un momento così difficile, dalla Liberazione in poi.

Ho detto: nostra, badate, della Costituzione repubblicana. Nostra perché è di tutti: di tutti i cittadini italiani. E perché affonda le radici in lotte comuni: lotte di parti politiche diverse fra loro, perfino storicamente contrapposte, ma unite nell’impresa di conquistare la libertà di tutti e di dare a questa libertà i contenuti che devono esserle propri. La libertà infatti non può rimanere solo un nome: e che non possa rimanere solo un nome è il punto centrale della controversia politica, da sempre. Non esiste libertà di tutti se non si assicura, a tutti, una vita degna di essere vissuta.

Nello stesso modo, non basta proclamare che tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge: bisogna rendere vera l’affermazione, nei fatti. E per renderla vera occorre che lo Stato, con tutte le sue istituzioni, rimuova le cause delle disuguaglianze. Questo vuole la nostra Costituzione: che – appena asserito, formalmente, il diritto all’uguaglianza dei cittadini – subito riconosce che un tale diritto sostanzialmente non esiste; e attribuisce alla Repubblica il compito essenziale di realizzarlo. Si tratta della ammissione d’una enorme coda di paglia pubblica: si tratta della ricognizione di un debito collettivo, verso tutti i poveri, tutti i discriminati, tutti gli emarginati, tutti gli esclusi.

Verso di loro – verso quanti per qualsiasi motivo sono tenuti in condizioni di disuguaglianza – esiste un debito collettivo che va pagato, giorno per giorno. Il confronto politico democratico ha avuto a lungo come terreno centrale questa materia: che rimane il cuore del campo di battaglia. Ma saremmo ciechi, e presto debellati, se non individuassimo i nuovi, inediti modi di aggressione dell’uguaglianza, formale e sostanziale. L’attentato – diretto ed esplicito – ha come oggetto la distribuzione democratica dei poteri.

Questa, nei suoi equilibri e nelle sue articolazioni, è strumento indispensabile per la conquista dell’uguaglianza da parte dei cittadini. Giacché di una faticosa conquista si tratta, non di un dono elargito dall’alto. Si diventa uguali, da disuguali, nella misura in cui si guadagna potere; si diventa uguali solo se ci si fa pienamente cittadini: cittadini sotto ogni punto di vista, anche nel diritto al lavoro, alla casa, alla tutela giurisdizionale, alla scuola e a tutti i servizi pubblici. È una dinamica non facile – tesa com’è verso la giustizia sociale – che può svolgersi efficacemente solo se viene garantita dalla distribuzione dei poteri: da un sistema di controlli reciproci fra le istituzioni, affinché non ci sia nessun potere incondizionato, libero di perseguire solo i propri interessi, rendendo così ancora più disuguali i disuguali.

Adesso è questa distribuzione dei poteri, sono questi controlli reciproci fra i poteri che si vogliono rendere inefficaci. Si mira a promuovere un regime plebiscitario nel quale chi ottiene il consenso elettorale può fare ciò che gli pare e piace, in tutto: ha le mani completamente libere, è sciolto dalle leggi (anche penali), ha (per così dire) licenza di uccidere; e se ne riparla dopo cinque anni. Tutti sappiamo come concretamente viene manipolato il consenso, grazie alle suggestioni televisive e ai conflitti d’interesse non risolti. E sappiamo anche che la maggioranza elettorale conseguita è sempre assai relativa, nella sostanza, data anche la crescente massa delle astensioni dal voto. Ma – perché ci sia democrazia, perché ci sia uguaglianza – al primo posto sta l’esigenza che ogni potere, comunque legittimato, anche al cento per cento, sia sottomesso alla logica dei controlli.

Care amiche, care amici, il primo interlocutore che io mi scelgo, in questa piazza, è il disoccupato, il giovane (o magari il non più tanto giovane) che non è mai entrato nell’area del lavoro, il precario, chi non ce la fa più col suo stipendio o col suo salario. Ecco, immagino che uno di questi concittadini mi ascolti pazientemente; e immagino la sua obiezione: cosa c’entro io col discorso che fai? E io mi trovo subito d’accordo: se il mio discorso non c’entra con lui, non c’entra con nulla che ci interessi; è meglio non farlo, meglio buttarlo via. Ma io penso che invece questo discorso con lui e con la sua vita c’entri: c’entri parecchio.

Perché se il mio interlocutore privilegiato si rassegna a non contare, a lasciare che tutto il potere reale resti senza controlli nelle mani di altri – di uno solo, di quell’uno solo: ed è superfluo qui farne il nome – allora povero il mio interlocutore: sta accettando la sua sconfitta definitiva. Il lavoro stabile, lo stipendio o il salario equo, la casa, eccetera, quell’uno solo non glieli regala. Se li deve prendere lui, da sé, l’interlocutore che io mi scelgo: il mio compagno.

E per prenderseli, ha bisogno della democrazia: delle garanzie e degli spazi agibili che solo la democrazia può dare. Ha bisogno d’un parlamento eletto con leggi giuste e libero da corruzioni o altre ipoteche; ha bisogno d’una scuola pubblica che funzioni; ha bisogno d’un giudice indipendente che gli dia ragione, quando ce l’ha. Ha bisogno d’un clima diverso, più respirabile, non improntato ai valori degradati, edonistici e falsi, della reclame, dei reality show; e questo clima diverso fatto di valori finalmente umani, intrisi di senso degli altri, dipende anche da lui, dal mio interlocutore: dipende da tutti noi. Giorgio Gaber usava ripetere: «Non temo Berlusconi in sé ma il Berlusconi che c’è in me». Ecco – vi sarete accorti – io sicuramente non sottovaluto il Cavaliere B. in sé; ma ho paura – una terribile paura – del Cavaliere che c’è in noi: soltanto lui ci ha battuti e ci può battere ancora.

Un’ultima cosa, care amiche e care compagne, cari amici e cari compagni: è giusto distinguere nel vocativo, ma guai se ci facciamo paralizzare irrimediabilmente dalle differenze che esistono fra noi. Noi che vogliamo, tutti, difendere la Costituzione, veniamo da storie in parte diverse, e continuiamo a vivere storie in parte diverse. Forse in tempi normali saremmo politicamente alternativi, come si usa dire. Ma questi che ci tocca vivere non sono tempi normali; ed è nocivo fingere che lo siano. Siamo tutti, adesso, sulla stessa pericolante barca: e urge impedire che chi sta al timone la mandi a fondo, come minaccia di fare. Dopo, quando avremo raddrizzato la rotta, magari ci divideremo. La democrazia repubblicana è già passata per un’esperienza simile: possiamo anzi concludere che è felicemente nata da essa.

Vi saluto con affetto.

Salvatore Mannuzzu

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3 Comments

  1. Elisabetta says:

    Che bella scrittura, che bella testa. Evviva Mannuzzu.

  2. Felice Castelli says:

    chapeau

  3. giù il cappello.

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